
Nelle mani di pochi: chi controlla l'informazione in Italia? L'infografica

Marco PanzarellaRedattore lavialibera



28 ottobre 2025
Sicurezza, difesa, riarmo. Sono queste tre delle parole che rimbalzano in tv e nei giornali negli ultimi mesi e si fanno spazio nei discorsi dei politici italiani ed europei. Un vocabolario che si militarizza sempre di più, plasmando un immaginario collettivo in cui bisogna essere pronti a rispondere alle minacce di un nemico.
La corsa al riarmo e le bombe inesplose che fanno ancora male
“L’ideologia di guerra rende il conflitto armato l’unica opzione possibile” commenta Federica Frazzetta, ricercatrice nella classe di Scienze politiche e sociali alla Scuola normale superiore di Firenze, che negli ultimi anni sta lavorando sui movimenti contro la guerra e contro le basi militari. E aggiunge: “La pervasività di questo modello è particolarmente chiaro nelle scuole e nelle università. Questo non significa, però, che le persone lo accettino in modo incondizionato. A rimetterci sono sempre i più deboli”.
Nel 2019 la Commissione europea ha lanciato il Green deal, il più grande investimento comunitario per tagliare le emissioni climalteranti. Cinque anni dopo, 800 miliardi vengono investiti in un piano di riarmo. Cosa è cambiato?
La difesa coordinata a livello continentale non è un tema nuovo e lo dimostra l'istituzione dell'Agenzia europea della difesa, che risale al 2004.
Nel corso degli anni, c'è stata un'accelerazione che ha portato nel 2017 all'istituzione di un fondo ad hoc. Queste dinamiche politiche sono rimaste chiuse tra gli addetti ai lavori fino al 2022. Con l’invasione russa dell’Ucraina, lo scenario è cambiato.
In che modo?
Dal febbraio 2022, la minaccia di un conflitto armato è stata avvertita dagli Stati europei come molto vicina e la narrazione bellica ha cominciato a farsi spazio nelle discussioni a Bruxelles. Una delle prove di questo cambiamento è data dalla stesura di un libro bianco sulla difesa, nel 2024.
Dentro, si mette nero su bianco che l’Europa è minacciata, perciò si deve armare, si deve preparare e per farlo deve investire in beni, prodotti e tecnologie dual use, ossia componenti che possono essere utilizzati sia per scopi civili, che per quelli militari. In questo modo, di fatto, l’uso civile di questi oggetti viene meno, mentre la ricerca si concentra su come utilizzarli sul campo di battaglia. L’espediente del dual use è un cavallo di troia che permette di piegare alla logica militarista l’uso civile anche di infrastrutture come le linee ferroviarie.
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Parlare apertamente di riarmo, però, rischia di non essere vincente sul piano politico.
Anche per questo motivo, il piano europeo che inizialmente si chiamava Ream europe ha preso poi il nome di Readiness-2030. Proporre esplicitamente il riarmo non è vincente dal punto di vista comunicativo. Per questo si preferisce la parola “prontezza”: in questo modo la Commissione richiama all’urgenza e all’emergenza, senza spaventare. Mentre il titolo è cauto, il contenuto parla esplicitamente di riarmo. Anche l’atteggiamento della classe politica sul tema è cambiato.
Nel discorso fatto al parlamento europeo sullo stato dell’unione a settembre, Ursula von der Leyen ha sottolineato che il continente è già in lotta, che stiamo già combattendo una battaglia contro la Russia. Questo sposta gli equilibri, anche narrativi
Nel discorso fatto al parlamento europeo sullo stato dell’unione a settembre, Ursula von der Leyen ha sottolineato che il continente è già in lotta, che stiamo già combattendo una battaglia contro la Russia. Questo sposta gli equilibri, anche narrativi: non siamo più in posizione di difesa, ma stiamo prendendo parte al conflitto armato.
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In Europa le posizioni sono molto diverse.
Certamente. La reazione dei Paesi dell’Est Europa è molto più decisa di quella che possono avere paesi come Italia e Spagna. Per stati come l’Estonia, la Lettonia, la Lituania e la Polonia, la propria sicurezza è messa in pericolo dalla presenza russa e lo ha dimostrato anche la percezione del volo dei droni di Mosca sul territorio europeo. Questo ha delle ripercussioni anche sul modo con cui si affronta il problema come opinione pubblica e dove la classe politica decide di indirizzare l’insicurezza generata da questi episodi.
Concentriamoci sull’Italia. Perché il comparto militare è sempre più presente nei luoghi di formazione?
L’ideologia di guerra è persasiva dentro le scuole e università e irrompe anche negli spazi pubblici. Due esempi recenti. Dal 2 al 5 ottobre 2025, la piazza davanti al Teatro Politeama, in pieno centro a Palermo, è stata trasformata in un “villaggio dell’esercito”, dove sono arrivati mezzi militari, installazioni interattive, simulatori. Per quattro giorni le scolaresche hanno camminato in mezzo a scenari di guerra come se fossero al luna park. L’altro riguarda invece le università. Non ci sono solo borse di ricerca per scopi bellici, c’è anche la possibilità per studenti e studentesse di prendere parte alle esercitazioni militari.
Nelle università, non ci sono solo borse di ricerca per scopi bellici, c’è anche la possibilità per studenti e studentesse di prendere parte alle esercitazioni militari
Si pensi all’operazione Mare Aperto, il maggior evento di preparazione della marina militare italiana. Chi partecipa all’iniziativa viene imbarcato sulle unità della squadra navale per poi cimentarsi a fare il political advisor, il legal advisor o l’addetto alla pubblica informazione durante gli addestramenti nel Mar Mediterraneo.
In questo modo, siamo passati da una costruzione ideologica e culturale di cui si alimenta il conflitto armato a una normalizzazione della presenza di uno stato di guerra, a partire dalle nostre città e puntando in particolar modo sulle giovanissime generazioni.
Chi prova a ostacolare questa logica bellicista?
Ci sono spazi in cui si può decostruire la logica del riarmo, partendo da cosa può fare la singola categoria, il lavoratore o il consumatore
Per quanto riguarda l’ondata di manifestazioni dell’ultimo anno, sicuramente tante sono legate alla denuncia del genocidio in Palestina. A livello culturale, i gruppi della società civile possiedono tanti strumenti che possono essere utilizzati per svelare gli inganni della retorica di guerra, per rendere più complessi alcuni ragionamenti sulla sicurezza che sennò vedrebbero le armi come unica soluzione. Abbiamo avuto alcune dimostrazioni con le prese di posizione dei portuali, dei ferrovieri, della rete dei sanitari per Gaza, delle università. Ci sono spazi in cui si può decostruire la logica del riarmo, partendo da cosa può fare la singola categoria, il lavoratore o il consumatore.
Chi perde davvero in questa corsa al riarmo?
Ci sono almeno due gruppi di vittime. Il primo comprende le popolazioni civili che vivono e sopravvivono negli scenari di conflitto. Pensiamo agli ucraini, ma anche ai russi: entrambi i popoli soffrono in termini di vite umane, di serenità e di possibilità.
Il secondo è un po’ più complesso e riguarda le persone che vivono negli ultimi anelli della catena del valore, cioè i più poveri. Il messaggio che dovrebbe passare è che armarsi non è sostenibile dal punto di vista ambientale, etico, ma soprattutto economico.
Rearm europe è un piano di indebitamento europeo che ricadrà sulle prossime generazioni e sulla sanità, sull’educazione e sulla spesa per il welfare. Chi ha già poco pagherà di più, aumentando la forbice sociale: i costi saranno per tutti, ma il modo con cui si abbatteranno sulle persone dipenderà da quanta disuguaglianza si sarà creata. Ecco perché garantire una serie di servizi pensando a un sistema equo non significa immaginare un equilibrio precario basato sulle armi, ma costruire sicurezza sociale.
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