Milano, 21 luglio 2020. Murales realizzato da Cosimo Cheone. C. Furlan/LaPresse
Milano, 21 luglio 2020. Murales realizzato da Cosimo Cheone. C. Furlan/LaPresse

La babele delle cure

Ogni anno 200mila italiani si spostano da Sud a Nord per curarsi. Una migrazione dovuta a una disparità di servizi, che impoverisce sempre di più le regioni meridionali

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoRedattrice lavialibera

26 ottobre 2020

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Ogni anno 200mila italiani si spostano in cerca di cure. Vanno da Sud a Nord. In primis Lombardia ed Emilia Romagna. Una migrazione dettata da una disparità di trattamenti, che genera un paradosso: le regioni di residenza devono pagare tutte le spese a quelle di approdo. Così alcuni territori si impoveriscono sempre di più e possono investire nella loro sanità meno risorse, offrendo servizi peggiori.

Individuare in ritardo la malattia, eventuali ricorrenze o progressioni, incide negativamente sulla riuscita delle cureVincenzo Nania - delegato Favo

"Sogno ancora di essere in fila dietro una porta chiusa: un incubo che continua a svegliarmi nel cuore della notte". Giulia ha 58 anni e vive a Catanzaro. Nel 2009 le hanno diagnosticato un tumore al seno e oggi ricorda che a pesarle non sono state solo le terapie, ma le attese per gli esami di controllo: infinite. Esperienza opposta per Maria, stessa malattia e stessa età, ma in cura a Milano. "Mai ritardi, mai problemi", racconta.

Aspettare tempi diversi per fare visite ed esami diagnostici è una delle disparità cui possono andare incontro i pazienti oncologici di diverse regioni d’Italia. Non una sciocchezza se si pensa che "si tratta di test fondamentali", spiega Vincenzo Nania, delegato per la Calabria della Federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia (Favo). "Individuare in ritardo la malattia, eventuali ricorrenze o progressioni, incide negativamente sulla riuscita delle cure. Adesso la situazione è peggiorata ovunque a causa del Covid, ma qui è sempre stata disastrosa".

All'origine delle disuguaglianze

Una differenza che ha molte cause, ma può essere in parte spiegata facendo un salto indietro nel tempo. È il 2001, quando una maggioranza di centrosinistra approva in parlamento la modifica del titolo V della Costituzione, la parte che definisce le autonomie locali. La riforma ha stabilito una legislazione concorrente Stato-regioni sul tema della salute. Da allora, al primo spetta determinare i livelli essenziali di assistenza (Lea), cioè le prestazioni che il Servizio sanitario nazionale deve fornire a tutti i cittadini gratis, o dietro pagamento di una quota (il cosiddetto ticket). Mentre le seconde hanno competenza esclusiva nella regolamentazione e nell’organizzazione dei servizi, nonché nel finanziamento delle aziende sanitarie. "Un federalismo equilibrato", così Francesco Rutelli, all’epoca capo della Margherita, definì la modifica "Il più grande errore strategico che sia mai stato fatto", dice oggi Giordano Beretta, presidente dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom). "Non esiste più un'organizzazione centralizzata – prosegue Beretta –. Abbiamo 21 sistemi sanitari. Ognuno ragiona in modo diverso dall'altro, con il risultato che alcuni pazienti hanno determinate possibilità e altri no". Una babele in cui è difficile orientarsi.

"La regionalizzazione della sanità è il più grande errore strategico che sia mai stato fatto. Abbiamo 21 sistemi sanitari. Ognuno ragiona in modo diverso dall'altro, con il risultato che alcuni pazienti hanno determinate possibilità e altri noGiordano Beretta - Aiom

Regione che vai, cura che trovi (forse)

A pagarne le spese non sono solo i malati di cancro. Regione che vai, cura che trovi (forse) è il titolo di un rapporto pubblicato dal Coordinamento nazionale delle associazioni dei malati cronici dell’onlus Cittadinanzattiva. Un’indagine che ha raccolto le esperienze dei pazienti di 110 organizzazioni, concludendo che "non siamo tutti uguali davanti alle cure". "All’articolo 32 della Costituzione che garantisce il diritto alla salute di ogni cittadino, bisognerebbe aggiungere che ciò avviene in maniera diversa a seconda del luogo in cui hai avuto la fortuna, o sfortuna, di nascere o hai deciso di vivere", commenta Maria Teresa Bressi, autrice dell'analisi.

Oltre ai già citati diversi tempi di attesa per esami diagnostici e controlli, le disparità sono molte. Ci sono regioni in cui il malato non deve preoccuparsi di prenotare le visite né di costruire un percorso di cura, e regioni in cui deve fare tutto da solo. In alcuni posti riabilitazione e sostegno psicologico sono un’utopia, in altri una prassi.

Un ambito che più risente delle differenze regionali è quello farmaceutico. Funziona così: l’Agenzia nazionale del farmaco (Aifa) stabilisce la validità e l'efficacia di una determinata medicina, il suo inserimento nel prontuario farmaceutico nazionale, la fascia di rimborsabilità e il prezzo. Ma nella maggior parte delle regioni l'approvazione e il recepimento del nuovo farmaco deve passare anche attraverso un comitato territoriale. Un iter che allunga i tempi di attesa: ci possono volere mesi affinché un farmaco approvato diventi effettivamente disponibile per i pazienti di una certo territorio. È quanto successo con l’opicapione, un trattamento per chi soffre di parkinson. A lungo i malati sardi sono riusciti a trovarlo solo pagando 200 euro una confezione da 30 pastiglie, mentre nel resto d'Italia era gratuito se inserito in un piano terapeutico. Il problema è stato risolto, ma il "caos è inaccettabile", attacca Stefania Lavore. Trentanove anni, tecnico di laboratorio in un centro di ricerca sul cancro, Lavore soffre di parkina mutata – una forma genetica di parkinson a esordio giovanile – e fa parte dell'Associazione italiana giovani parkinsoniani (Aigp). "Con le medicine duriamo quattro ore, senza è il delirio. Per quel che mi riguarda, sono fortunata perché vivo in Lombardia: il top di gamma. Ma vedo molti miei amici soffrire. Non dovrebbe essere così". Non solo: "In alcuni casi è più difficile reperire i farmaci in ospedale perché la regione ha esaurito il budget a disposizione per quell’anno", segnala Bressi.

A mancare, a volte, sono persino delle strutture vitali. Come i centri ictus, unità ad hoc dove è possibile curare i colpi apoplettici in modo adeguato. L’Associazione italiana per la lotta all'ictus cerebrale (Alice) segnala che sono presenti sul territorio italiano a macchia di leopardo, con un buon livello di copertura raggiunto solo in alcune regioni del Nord come Veneto, Emilia Romagna, Liguria, Toscana e Lombardia.

Una questione meridionale?

Farne solo una questione meridionale non sarebbe corretto. Lo dicono i medici e lo ripetono le associazioni di pazienti: ci sono campi in cui il Sud eccelle. La Campania, ad esempio, è all'avanguardia per il trattamento del melanoma. Eppure, è innegabile che i problemi aumentano se ci si sposta verso la fine dello Stivale. Basta guardare i punteggi che il ministero della Salute ha assegnato alle varie regioni per i livelli essenziali di assistenza forniti nel 2018. In cima alla classifica si trova il Veneto, con 222 punti su un massimo di 225, seguito da Emilia Romagna, Toscana e Liguria. In fondo stazionano Campania (170) e Calabria (162).

I problemi aumentano se ci si sposta verso Sud. Basta guardare i punteggi che il ministero della Salute ha assegnato alle varie regioni per i livelli essenziali di assistenza forniti nel 2018. In cima alla classifica si trova il Veneto, con 222 punti su un massimo di 225, seguito da Emilia Romagna, Toscana e Liguria. In fondo stazionano Campania (170) e Calabria (162)

Anche i piani di rientro, introdotti con la spending review del 2005 con l'obiettivo di garantire l'equilibrio finanziario del sistema, gravano su molte regioni del Sud. Al momento sono sette: Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Molise, Puglia, e Sicilia. In nome del risanamento dei bilanci locali e delle aziende sanitarie, però, c'è chi ha tagliato la spesa abbassando ancora di più la capacità di soccorso sul territorio. "E se è vero che in passato ci sono stati sprechi indicibili nella sanità del Meridione, e una gestione politica e clientelare che in molti casi continua ancora e ha abbassato la qualità dell'assistenza facendo andare via le professionalità di alto livello, è anche vero che da vent'anni a questa parte gli sprechi recenti o meno non bastano più da soli a giustificare un divario di servizi ai cittadini davvero elevato", scrivono Antonio Fraschilla e Luca Bianchi in Divario di cittadinanza. Un viaggio nella nuova questione meridionale. Da qui la mobilità ospedaliera interregionale. Non a caso, secondo le analisi della Fondazione Gimbe, i territori con maggiore attrazione – che vantano crediti superiori a 200 milioni di euro – sono tutti al Nord. Lombardia ed Emilia Romagna costituiscono insieme il 40 per cento della mobilità attiva.

A spostarsi sono persino i medici, come Antonio Marfella, oncologo del Pascale di Napoli che in un'intervista al Corriere del Mezzogiorno ammise candidamente di aver scelto l’Istituto europeo di oncologia di Milano per curare il proprio cancro alla prostata. "È una brutta sensazione, certo, ma posso affermare di essere in buona compagnia. Ci sono stati altri medici che come me hanno optato per il capoluogo lombardo", disse.

Il reclutamento pazienti

Franco de Maria, presidente dell’associazione Gianmarco de Maria e referente calabrese della Federazione italiana associazioni genitori oncoematologia pediatrica (Fiagop), parla di un "reclutamento di pazienti all'interno degli ospedali della Calabria". "Il problema non sono i medici. Ma la mancanza di strutture adeguate, che ne mortifica la bravura e l'impegno", ci tiene più volte a ribadire Anna, di Cosenza. A sua figlia hanno diagnosticato una leucemia quando aveva nove anni. "Diagnosi tempestiva, cure ottime. Poi, però, mancava un’area in cui fosse garantita la sterilità dell’ambiente, essenziale per chi soffre di questa malattia. Così abbiamo deciso di trasferirci a Roma e di ricoverare la bambina al Bambin Gesù". Anna e il marito hanno dovuto affittare una casa nella Capitale, vicino l'ospedale, e prendere una pausa di un anno dal lavoro. I costi non sono finiti lì, dato che terminate le terapie è stato necessario un controllo al mese, ora – dopo tre anni – diventati sei. "Per ogni viaggio abbiamo speso circa 500 euro, tra benzina, pernottamento e pasti. Ce lo siamo potuti permettere perché siamo entrambi dipendenti pubblici. Ma gli altri?".

Da lavialibera n°5 settembre/ottobre 2020

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