14 novembre 2020
Mario Paciolla, nato a Napoli nel 1987, aveva 33 anni quando il 15 luglio è stato trovato morto nel suo appartamento a San Vicente del Caguán in Colombia. Si trovava lì in qualità di collaboratore dell’Onu incaricato, insieme ad altri colleghi, di verificare i risultati di alcuni progetti delle Nazioni unite (Un), in particolare legati all’attuazione dei protocolli di pace tra Stato e Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc).
Le Farc sono un’organizzazione guerrigliera comunista nata nel 1964 come risposta all’Operazione Marquetalia. L’obiettivo di questa operazione, coordinata dal governo colombiano con l’appoggio degli Stati Uniti, era reprimere alcune esperienze di lavoro cooperativo che non si conciliavano con le volontà dei grandi proprietari terrieri. Di conseguenza, alcuni agricoltori danneggiati dalla repressione si sono riuniti clandestinamente in piccoli gruppi, le Farc appunto. In una prima fase hanno adottato strategie guerrigliere – attacchi a sorpresa e spostamenti in piccole unità – per fronteggiare il più grande esercito colombiano. A partire dagli anni ’80, però, grazie al commercio di cocaina, sono riusciti ad aumentare le armi e gli uomini a disposizione, legittimando il proprio potere all’interno del Paese. Vaste aree sono state conquistate e altre travolte dalla guerra civile. L’unico risultato certo è il Registro unico delle vittime (Ruv), il quale riporta alcuni dati dal 1985 a oggi che descrivono la drammaticità dei fronti aperti in Colombia: 85.894 attacchi terroristici e attentati, 1.048.546 omicidi, 37.375 casi di sequestro, 10.674 colombiani vittime di tortura e 8.070.112 persone soggette allo sfollamento forzato.
24 novembre 2016: il presidente colombiano Juan Manuel Santos Calderón e Rodrigo Londono, capo delle Farc, hanno firmato un accordo di pace. È da qui che bisogna partire per cercare di capire le cause della morte di Mario Paciolla. Ma andiamo con ordine. Firmato l’accordo che prevede il disarmo delle Farc, una riforma agraria che promuova la conversione di piantagioni di coca in coltivazioni lecite e la disposizione di tribunali post-conflitto, le divisioni in Colombia non sono scomparse. Anzi. Sono emerse in tutta la loro evidenza nello scontro tra candidati alle elezioni del 2018: da una parte Ivan Duque Márquez che voleva rivedere gli accordi, dall’altra Gustavo Francisco Petro Urrego, favorevole alla pace con i gruppi rivoluzionari. Il popolo si è schierato con Duque, eleggendolo presidente. Dopo un breve periodo in cui i conflitti interni sono diminuiti – senza cessare mai del tutto – sono tornati i massacri. Benché gli accordi del 2016 avessero garantito il disarmo di migliaia di guerriglieri, la politica conservatrice promossa dal presidente Duque ha riaperto i conflitti con alcune sezioni delle Farc. In questa regione del mondo, dove spesso l’attenzione mediatica è bassa e i diritti dell’uomo sono frequentemente calpestati, si contano da inizio anno 181 morti.
Colombia, pace fatta. Anzi no. Gli accordi tra governo e Farc non hanno fermato le violenze che continuano a colpire i più vulnerabili
A peggiorare la situazione c’è la povertà in cui vivono migliaia di persone. L’agricoltura, piantagioni di coca comprese, è il settore che dà un’occupazione a una buona percentuale di colombiani. D’altronde anche i tentativi di convertire le piantagioni di coca ha provocato, in molti casi, un ulteriore impoverimento dei coltivatori. Ad esempio, l’irrorazione dei campi con il glifosato, diserbante considerato “probabilmente cancerogeno” dall’Organizzazione mondiale della sanità, ha distrutto anche foreste e coltivazioni legali. Così migliaia di persone in gran parte nel Sud del Paese sono rimaste senza possibilità di lavoro.
All’interno di queste dispute tra narcotrafficanti, forze rivoluzionarie e governo, si inserisce il bombardamento dell’esercito, avvenuto il 29 agosto del 2019, all’accampamento di Rogelio Bolívar Córdova, comandante di una cellula di dissidenti delle Farc che non aveva accettato il disarmo. Mario Paciolla, incaricato dall’Onu, ha scoperto che tra le vittime dell’azione sette avevano meno di 17 anni. Un massacro capace di scatenare importanti conseguenze politiche. Alcune notizie riservate sul bombardamento, raccolte dal senatore dell’opposizione Roy Barreras, hanno portato alle dimissioni del ministro della difesa Guillermo Botero, accusato di aver omesso la presenza di minori tra le vittime.
Sarebbe stato il responsabile Onu regionale, Raul Rosende, a informare il senatore Barreras sulle conclusioni di verifica. La faccenda si complica ma permette di capire la spaccatura interna all’Onu. La fuga di notizie arrivata a Barreras non fu concertata con Ruiz Massieu, capo di tutte le Missioni di verifica dell’Onu in Colombia, a causa della sua presunta vicinanza con il governo di Duque. Ne è conseguita una divisione interna nella Missione: una parte festeggiava la caduta del ministro e un’altra, invece, era preoccupata per possibili ritorsioni da parte delle Forze Armate. Tra questi c’era Mario. Valerio Cataldi, inviato del Tg3, ne ricorda l’angoscia. Non solo, nell’articolo di quest’ultimo Mario Paciolla, professionista della pace si evince che gli unici posti in cui Mario non riuscì a farlo entrare erano proprio quelli controllati dall’Un.
A novembre del 2019, qualche mese dopo le dimissioni di Botero, Mario era in vacanza a Napoli. Da lì chiese di cancellare i suoi articoli da vari siti web ed eliminò foto personali sui social: temeva, come stava succedendo ad altri suoi colleghi, di subire un attacco informatico. La paura nel corso dell’anno è continuata a crescere, tanto da divenire visibile anche ai suoi famigliari. Nel gennaio 2020 Mario ha chiesto un trasferimento, senza mai ottenerlo; costretto a stare in Colombia, nei primi giorni di luglio ha comprato un biglietto aereo che lo riportasse in Italia il 20 dello stesso mese. Ha scritto un messaggio a un amico in cui descriveva la sua insicurezza in Colombia e la sua volontà di cambiare vita.
L'inviato del Tg3 Valerio Cataldi ricorda Mario Paciolla, professionista della pace
Mario, purtroppo, non si sbagliava: il 15 luglio è stato trovato morto nel suo appartamento a San Vicente del Caguán, con un lenzuolo intorno al collo e delle ferite sui polsi. Ricostruire quei momenti risulta molto complicato, ma su El Espectador la giornalista Claudia Julieta Duque, amica di Mario, ha cercato di fare luce sulla vicenda: ha scoperto che nella sede della Missione Onu a Bogotà è stato trovato il mouse del computer di Mario. Le criticità sono due: in primo luogo, il mouse è stato sottratto dalla casa del cooperante italiano il giorno seguente alla sua morte per ordine di Christian Leonardo Thompson Garzón, responsabile della Sicurezza della Missione dell’Onu, ragione per cui quattro agenti della Sezione di indagine penale della polizia di San Vicente del Caguán sono indagati; in secondo luogo, nonostante il mouse fosse impregnato di sangue, è stato pulito – così come la stanza – e prelevato dall’Onu. La figura di Thompson assume una maggiore importanza se si considera che il 14 luglio, poche ore prima di morire, Mario era al telefono con lui: la Procura colombiana ha aperto un fascicolo per chiarire le circostanze della telefonata. Claudia Duque e il giornale El Espectador si chiedono se sia stato fatto di tutto per mettere Mario in una condizione di sicurezza. Sono convinti che sia stato ucciso, come parrebbe dalla lettera indirizzata dalla giornalista all’amico e poeta Mario:
“Secondo l’ultima conversazione che hai avuto con tua madre, il 10 luglio ti sei messo in ‘un guaio’ con i tuoi capi, non ho dubbi nell’affermare che sia stata la causa detonante che ha scatenato il tuo suicidio simulato”
Gli investigatori colombiani e quelli italiani non concordano: i primi ritengono che sia stato un suicidio, mentre la procura di Roma è più propensa a credere nell’omicidio, tesi sostenuta anche da familiari, amici e giornalisti.
A distanza di mesi dal 15 luglio, il settimanale Semana fa trapelare gli esiti dell’autopsia svolta dalle autorità colombiane: Mario Paciolla sarebbe morto per asfissia. Il settimanale colombiano riporta un documento secondo cui il cooperante si sarebbe prima autoinflitto dei tagli all’altezza dei tendini suoi polsi e poi si sarebbe avvolto un lenzuolo intorno al collo per quattro volte. Tuttavia, questa diagnosi non spiegherebbe né la profondità del solco, troppo ampia per essere causata da un lenzuolo, né la quantità di sangue trovata in casa di Mario, esagerata per i tagli presenti sui polsi.
Proprio su queste due criticità fonda, secondo molti giornali italiani, la sua ipotesi la procura di Roma. Già dal 23 luglio – giorno in cui la salma di Mario giunge in Italia – i medici legali propendono per l’omicidio. Nonostante si debba aspettare ancora del tempo prima di avere alcuni risultati dell’autopsia, come quelli dell’esame tossicologico, i medici italiani sostengono che Mario fosse già morto quando gli è stato stretto il lenzuolo intorno al collo.
Dopo l’appello dei familiari, lo Stato italiano si è interessato della questione. Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris ha preso subito contatto col ministro degli Affari esteri, Luigi Di Maio, al quale il senatore Sandro Ruotolo ha presentato un’interrogazione urgente chiedendo risolutezza da parte del governo per scoprire la verità sulla morte del cooperante napoletano. In estate Di Maio ha sollecitato l’omologa colombiana Claudia Blum Capurro De Barberi affinché gli investigatori sudamericani facciano piena luce sul caso. Tuttavia, dal colloquio avuto ad agosto con il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, non si hanno più notizie.
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