La bandiera della Repubblica democratica araba dei saharawi. Credits: Focus on Africa
La bandiera della Repubblica democratica araba dei saharawi. Credits: Focus on Africa

La diplomazia non ferma la repressione del popolo saharawi

Dopo 29 anni di tregua, venerdì 13 novembre sono ripresi i combattimenti nel Sahara occidentale. A farne le spese sono soprattutto civili, attivisti e giornalisti, vittime di violenze militari quotidiane

Alice Pistolesi

Alice PistolesiGiornalista

4 dicembre 2020

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Una nuova-vecchia, guerra scuote il Maghreb. I combattimenti tra Marocco e Fronte Polisario, il movimento di liberazione del popolo saharawi (costituito dai gruppi tribali arabo-berberi residenti nelle zone del Sahara occidentale, prevalentemente musulmani) sono ripresi venerdì 13 novembre dopo ventinove anni di tregua. Una situazione esplosiva che sta, tra le altre cose, contribuendo al peggioramento della condizione di giornalisti, attivisti e cittadini dei territori del Sahara occidentale che si trovano sempre più esposti alla repressione.

La ripresa degli scontri è arrivata dopo 21 giorni di manifestazioni e l’occupazione da parte della popolazione saharawi del valico di Guerguerat, una zona cuscinetto presidiata dalla missione Onu, sulla quale insiste sul muro di 2700 chilometri fatto costruire a partire dal 1980 dal Marocco e che divide la popolazione saharawi. Qui, secondo l’accordo del 1991, non poteva esserci presenza militare. In quel punto il Marocco ha costruito un passaggio per far arrivare le merci provenienti dal Sahara, in Mauritania. Da tempo i saharawi denunciano alla comunità internazionale che quelle merci provengono da quella che considerano un'area occupata. Il 13 novembre, il Marocco ha avvertito che non avrebbe più potuto accettare il blocco del passaggio commerciale e ha aperto il fuoco per liberare il valico dai manifestanti. Da quel momento il Fronte Polisario ha dichiarato conclusa la tregua.

Un atto, quello del blocco del valico, provocato anche dallo stallo infinito delle trattative diplomatiche e dal rinnovo della missione (il 1° novembre) senza nessuna modifica, senza nessun segnale di speranza.

Perché i muri non fermeranno le migrazioni

Breve storia dell’occupazione marocchina nel Sahara occidentale

Il Sahara occidentale è stato occupato dall’esercito marocchino nel 1975 e rimane ad oggi, secondo le stesse Nazioni unite, l’ultima colonia che deve autodeterminarsi. Nel territorio è attiva dal 1991, anno del cessate il fuoco, la missione Onu Minurso con il compito di vigilare sulla tregua e organizzare il referendum che avrebbe dovuto portare il popolo saharawi a decidere del proprio destino, ma che non si è mai svolto.

Nel deserto abitano le famiglie che quarantacinque anni fa sono riuscite a fuggire prima dell'occupazione marocchina e che da allora attendono di poter rientrare

Il muro di separazione si sviluppa su un'area fortemente minata, costellata di bunker e postazioni fortificate e divide chi vive nei campi profughi nel deserto algerino (governo compreso) e chi abita nel Sahara occidentale. Nel deserto abitano le famiglie che quarantacinque anni fa sono riuscite a fuggire prima dell'occupazione marocchina e che da allora attendono di poter rientrare. I campi profughi dipendono dagli aiuti umanitari, che diminuiscono ogni anno di più, e sopravvivono in condizioni climatiche proibitive.

Credits: Frontline defenders
Credits: Frontline defenders

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Chi vive nel Sahara occidentale fa invece ogni giorno i conti con le costanti violazioni dei diritti umani, già testimoniate da numerose organizzazioni e che hanno visto un notevole peggioramento con la ripresa delle armi. La stampa estera non può entrare nei territori. Essere giornalisti e attivisti è più che pericoloso in un territorio militarizzato, nel quale la cultura saharawi è perseguita in ogni forma. Nel Sahara occidentale non ci sono università e ospedali specializzati e il tasso di disoccupazione, in particolare tra la popolazione saharawi, è altissimo.

Le testimonianze degli attivisti

“Nei giorni scorsi tutte le zone in cui vivono i saharawi sono state circondate da polizia e militari – racconta Abdatie Foudache, un’attivista di 45 anni –. Tutti i nostri movimenti sono controllati, la repressione militare si è fatta ancora più forte”.

Ghalia Djimi ha 59 anni, abita a El Aiun, la capitale del Sahara occidentale, ed è la vicepresidente dell'Associazione saharawi delle vittime di gravi violazioni dei diritti umani commesse dallo Stato marocchino. “La mia vita si svolge in una grande prigione, per la repressione e l'umiliazione quotidiana – racconta a lavialibera –. Se mostri la tua posizione politica sull'occupazione, la situazione si complica. Dopo la ripresa della guerra, la repressione ha colpito tutti i saharawi, una repressione durissima nella quale gli agenti di polizia armati minacciano i civili perché non diano inizio alle manifestazioni con rivendicazioni politiche”.

Il muro di 2700 chilometri costruito nel 1980 dal Marocco. Credits: Saharawi Toscana
Il muro di 2700 chilometri costruito nel 1980 dal Marocco. Credits: Saharawi Toscana

L'associazione di cui è vicepresidente si trova in un momento di inattività “perché gli agenti di polizia marocchini ci vietano di entrare. Io e i miei compagni, membri del consiglio esecutivo che si trovano a El Aaiun, siamo sotto sorveglianza permanente giorno e notte nelle nostre case. Dopo gli ultimi eventi di repressione volevamo andare a visitare le vittime, ma non appena arriviamo a casa di qualcuno, arrivano i poliziotti a minacciare le famiglie che abbiamo incontrato. Il nostro lavoro di osservazione e segnalazione è bloccato a causa di queste pratiche repressive”.

Nei giorni successivi alla ripresa della guerra la Commissione nazionale saharawi per i diritti umani ha espresso con un comunicato la sua preoccupazione per l'aumento delle violazioni marocchine contro i civili, in particolare attivisti e giornalisti, e ha richiamato l'attenzione della Commissione africana per i diritti dell'uomo e dei popoli sulla pericolosa situazione in cui vivono i prigionieri politici saharawi nelle carceri marocchine.

“Vivere in un territorio occupato – conclude Ghali – è molto difficile per un’attivista che crede nella nobile battaglia dei diritti umani fondamentali sotto il diritto all'autodeterminazione”. Una vita rischiosa per l'attivista e il suo entourage e che richiede molti sacrifici.

Vivere in un'area occupata o sotto l'occupazione significa perdita di libertà, nessuno può capire come ci si sente tranne chi la sperimenta Mansour Moahmed Moloud - giornalista-attivista

Versione confermata anche da Mansour Moahmed Moloud, 27 anni, giornalista-attivista che documenta le violazioni dei diritti umani commesse dal Marocco contro i saharawi nei territori occupati del Sahara occidentale per la Fondazione Nushatta. “Siamo tutti nascosti perché siamo ricercati – ci racconta –. Nei giorni scorsi, le forze speciali di polizia marocchine hanno fatto irruzione nelle case di due nostri colleghi a causa del loro attivismo. La polizia marocchina opprime sistematicamente i saharawi nei territori occupati del Sahara occidentale e principalmente gli attivisti. I mezzi violenti sono molti. Quelli meno visibili sono la minaccia e la demonizzazione dei saharawi attraverso i media marocchini e le istituzioni religiose che ripetono: ‘Coloro che chiedono la libertà sono i nemici di Allah’. Lo strumento ben visibile è invece la repressione militare quotidiana. Vivere in un'area occupata o sotto l'occupazione significa perdita di libertà, nessuno può capire come ci si sente tranne chi la sperimenta”.

Le molestie ai giornalisti

L'Osservatorio per la protezione dei difensori dei diritti umani ha lanciato martedì 24 novembre un appello urgente all'Organizzazione mondiale contro la tortura e alla Federazione internazionale dei diritti umani per intervenire presso le autorità marocchine e chiedere loro di garantire integrità fisica e benessere psicologico ai difensori dei diritti umani nel Sahara occidentale e a due attivisti dell'agenzia stampa Equipe media (l'agenzia di stampa saharawi perseguitata dal Marocco): Ahmed Ettanji e Nazha El Khalidi. Sia Equipe media sia Nushatta sono agenzie formate da giornalisti-attivisti che lavorano in clandestinità. 

L'appello è stato lanciato dall'Osservatorio dopo essere stato informato delle molestie ai due giornalisti, il 21 e 22 novembre, mentre si stavano preparando per celebrare il loro matrimonio. Secondo l'osservatorio, circa 200 elementi della polizia e dei paramilitari marocchini hanno circondato le case e le strade adiacenti nel quartiere di Lahohoum, nel centro di El Aaiún, impedendo a chiunque di entrare o uscire.

Poliziotti infiltrati tra i manifestanti

Abdatie, Ghalia e Mansour raccontano che le forze militari e di polizia sono aumentante in maniera esponenziale con l'inizio della guerra. Ci sono molti poliziotti in borghese che controllano i gruppi che si formano nelle strade. Nonostante il rischio e l'enorme pressione della polizia, subito dopo l'inizio del conflitto ci sono state molte manifestazioni di sostegno al Polisario nelle varie città. Oltre a sopprimere le manifestazioni, la polizia in borghese si infiltra nei manifestanti e li filma, per poi intervenire nei giorni successivi. Le manifestazioni, anche in tempo di pace, si organizzano prima con il passaparola, poi tramite messaggi.

Difficile dire quanti siano adesso i prigionieri saharawi nelle carceri marocchine. Prima della guerra le associazioni vicine ai saharawi ne contavano 39. Il 20 novembre Équipe media individuava 25 nuovi arresti a El Aaiún e diversi casi di maltrattamenti. Anche l’organizzazione Istanza saharawi contro l'occupazione marocchina ha denunciato nei giorni scorsi le incursioni nelle case, l'arresto di tre minori nella città di Bujador e maltrattamenti a una ragazzina di 12 anni, colpevole di aver disegnato una bandiera saharawi.

Per tutto quel sottobosco, resistente e clandestino, che si occupa di diritti umani, per chi difende la propria cultura, per chi espone una bandiera, per gli avvocati che difendono i prigionieri, per chi prova a documentare quello che accade, è oggi ancora più difficile resistere.

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