AP Photo/Jerome Delay
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Effetto serra, effetto fuga

Dietro le grandi migrazioni contemporanee c'è, in un modo o nell'altro, lo zampino del cambiamento climatico

Antonello Pasini

Antonello PasiniFisico climatologo del Cnr

30 luglio 2020

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Dietro le grandi migrazioni contemporanee c’è, in un modo o nell’altro, lo zampino del cambiamento climatico. Con le dovute differenze, è il caso della Siria, da dove scappano i profughi che arrivano in Europa attraverso la rotta balcanica, come del Sahel – la porzione di territorio che si estende tra il deserto del Sahara a nord e la foresta pluviale a sud – da cui proviene la maggior parte dei migranti che approda nel nostro Paese. Qualcuno potrebbe obiettare che il clima è sempre cambiato e le migrazioni sono sempre avvenute nella storia dell’homo sapiens, ma non terrebbe conto di due importanti differenze rispetto al passato. Oggi parliamo di gente disperata in fuga dalla fame e dalla guerra, costretta a lasciare la propria casa. Una migrazione forzata legata a doppio filo a un riscaldamento della Terra diverso da ogni altro mai registrato in precedenza: è molto più rapido, non è limitato ad alcune zone del Pianeta, bensì esteso all’intero globo, ed è causato soprattutto da attività umane, quali l’emissione di gas serra, la deforestazione, e il cattivo uso del suolo, compresa un’agricoltura non sostenibile. Tutto ciò ha portato a un aumento dell’intensità, e talvolta della frequenza, degli eventi climatici estremi: dalle ondate di calore alle alluvioni.

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La miccia della guerra

Certo, questi fenomeni stanno avvenendo in tutto il mondo con conseguenze sulla vita di ognuno di noi, ma i loro effetti sono maggiori laddove i territori, gli ecosistemi e le società sono fragili e vulnerabili. Infatti, se nei Paesi sviluppati le solide infrastrutture e le forme di assistenza sociale garantiscono una maggiore resilienza, in quelli poveri gli eventi estremi possono portare alla completa distruzione di una già debole economia di sussistenza. La situazione appare ancora più sbilanciata e iniqua se si pensa che tali Stati emettono pochissimi gas serra, quindi sono anche i meno responsabili del recente riscaldamento globale. Eppure, sono quelli che ne stanno pagando il prezzo più alto perché, in genere, il cambiamento climatico riesce a minare la loro stabilità in due modi: o come causa prima di innesco di una crisi conflittuale e migratoria, oppure come concausa che accelera o amplifica una situazione critica preesistente.

Il primo scenario è quello del conflitto in Siria. Dal 2007 al 2010 il territorio siriano ha dovuto far fronte a una siccità con un’estensione e un’intensità che sarebbero state improbabili prima del riscaldamento globale. Gli agricoltori hanno perso tutti i loro raccolti e popolato le periferie degradate delle città, dove sono iniziati i conflitti per l’acqua e le derrate alimentari, i cui prezzi sono schizzati alle stelle. Un peso l’hanno avuto anche corrotti e speculatori, ma il cambiamento climatico ha rappresentato la scintilla che ha innescato la miccia della guerra civile e costretto milioni di profughi a fuggire verso l’Europa attraverso la rotta balcanica.

Piuttosto diverso è quanto è accaduto, e accade ancora, nella fascia del Sahel, da dove proviene circa il 90 per cento delle persone che arriva in Italia via mare dalla Libia. Della fascia fanno parte dieci Stati fragili (Senegal, Gambia, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Ciad, Sudan ed Eritrea) e dalle economie molto deboli, che si basano quasi del tutto su un’agricoltura di sussistenza. Qui il cambiamento climatico è un amplificatore e acceleratore di problemi. La desertificazione, che pian piano sta facendo sparire i terreni fertili, si aggiunge a un eccessivo sfruttamento delle risorse naturali. Fattori che logorano alla base la coesistenza pacifica tra agricoltori e pastori, adesso in lotta per gli esigui beni rimasti: basti pensare che il lago Ciad, che un tempo era il quarto più grande bacino d’acqua dolce dell’Africa, oggi ha una superficie pari a un diciassettesimo di quella che aveva negli anni Sessanta.

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Per capire quanto il riscaldamento globale abbia inciso sulle migrazioni in questa zona, nel 2019 ho condotto uno studio con il fisico Stefano Amendola. Insieme abbiamo sviluppato un modello di intelligenza artificiale in grado di fare una stima dei flussi migratori sulla base di fattori unicamente legati al clima, come le precipitazioni o la temperatura, e abbiamo analizzato le informazioni disponibili dal 1995 al 2009: un lasso di tempo scelto con l’obiettivo di anticipare le primavere arabe, escludendo così i conflitti recenti ed evidenziando meglio le eventuali incidenze climatiche. Il risultato mostra che l’80 per cento della variabilità nei flussi annuali di migranti dai Paesi del Sahel all’Italia può essere spiegata dai fattori meteo-climatici.

In particolare, il fattore dominante che ha influito su queste migrazioni è l’aumento delle temperature medie. Le ragioni della rilevanza sono due. Da una parte, ha un impatto negativo sui raccolti, che si traduce in una mancanza di cibo. Dall’altra, fa sì che spesso la temperatura si avvicini alle soglie di tolleranza fisiologica per uomini e animali, non lasciando speranza di sopravvivenza in loco, almeno per le persone più vulnerabili. Quando il cambiamento climatico contribuisce a distruggere i raccolti e non si ha più da mangiare, quando le lotte per le risorse fanno temere per la propria vita, la sola via di uscita è la migrazione. Prima all’interno del proprio Paese, poi in quelli limitrofi. Infine, verso l’Italia e l’Europa.

Il cambiamento climatico non spiega tutto, la situazione delle migrazioni è complessa e differenziata nelle varie zone del mondo, ma si tratta di una costante sempre presente che influisce molto. I Paesi che, con il loro sviluppo, lo hanno determinato oggi sono chiamati a trovare soluzioni eque e giuste per tutti, con strategie e azioni doppiamente vincenti che portino a risolvere insieme i problemi climatici, nonché quelli conflittuali e migratori.

Da lavialibera n° 3 maggio/giugno 2020

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