21 ottobre 2020
"Aprire il rubinetto dell’acqua è un gesto automatico, il primo che fai al mattino. Quando sono arrivate le analisi, abbiamo smesso", racconta Cristina Cola, avvocato di Lonigo, un paese in provincia di Vicenza. L’acqua che arrivava a casa di Cristina, come quella che scorreva nelle abitazioni di altre 350mila famiglie venete, era inquinata. La scoperta è arrivata nel 2016, quando una parte della popolazione che abita tra le province di Vicenza, Verona e Padova è stata sottoposta ad analisi: i test hanno rilevato la presenza di un'alta concentrazione di composti chimici nel sangue. Una vicenda rimasta sepolta per decenni, che vede imputati tredici manager, ed è ora al vaglio dei giudici del tribunale di Vicenza.
A partire dal 2016 una parte della popolazione che abita tra le province di Vicenza, Verona e Padova è stata sottoposta ad analisi: i test hanno rilevato la presenza di un'alta concentrazione di composti chimici nel sangue
I Pfas sono prodotti creati dall’uomo che vengono usati per impermeabilizzare indumenti e pelli, ma si trovano anche nel rivestimento delle pentole, nelle schiume e nella sciolina, negli imballaggi e nei cosmetici. Sostanze che tendono ad accumularsi negli organismi e si riducono della metà ogni dieci anni. Studi scientifici hanno provato che sono potenzialmente in grado di causare gravi danni alla salute, alterandone la normale funzionalità ormonale, nonché cancerogeni. Alti livelli di Pfas nel sangue possono provocare disturbi alla tiroide, ipertensione e problemi di fertilità.
La maggiore responsabile dello sversamento è una fabbrica fallita nel 2018: la Miteni, che si trova a Trissino, un piccolo comune in provincia di Vicenza. Nella sua zona industriale gli impianti, nascosti dagli alberi, sembrano volersi celare. Il cancello è aperto a metà, tutto è ancora lì. Macchinari, attrezzature e brevetti sono stati comprati dalla società indiana Viva life lo scorso anno, ma la pandemia ne ha bloccato la rimozione. Ancora lì, ma più sotto, ci sono anche i rifiuti che continuano a inquinare.
La Miteni è responsabile del 97 per cento dei 5 chilogrammi di Pfas sversati nelle acque del bacino Agno-Fratta-Gorzone, da cui pescano gli acquedotti che raggiungono 21 comuni
Nata come Rimar (Ricerche Marzotto) nel 1965, già negli anni Settanta la fabbrica è stata protagonista di un inquinamento delle acque da benzotrifluoruri, costringendo diversi comuni a cambiare le proprie fonti di approvvigionamento. Lo stabilimento è stato poi acquisito dalla giapponese Mitsubishi e da Enichem, da cui il nome Miteni, per poi passare nelle mani del gruppo industriale lussemburghese Icig. Secondo le analisi condotte dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale del Veneto (Arpav), l’industria è stata responsabile del 97 per cento dei 5 chilogrammi di Pfas che sono stati sversati nelle acque del bacino Agno-Fratta-Gorzone, grande come il lago di Garda, da cui pescano gli acquedotti che raggiungono 21 comuni, perciò definiti zona rossa.
I Pfas scaricati da Miteni hanno contaminato anche moltissimi pozzi privati e le acque usate per irrigare le coltivazioni. Nulla però è emerso fino al 2011, quando i ricercatori del Comitato nazionale delle ricerche (Cnr) durante uno studio sugli inquinanti nei grandi fiumi hanno trovato grandi quantità di Pfas nel fiume Po. Da una fabbrica di Alessandria che si rifornisce in Veneto sono poi risaliti a Trissino e alla Miteni. E solo nel 2013 il ministero dell’Ambiente ha comunicato alla Regione il problema inquinamento.
Anche se dal 2017 gli acquedotti che servono la zona rossa utilizzano dei costosi filtri al carbonio contro queste sostanze, il rubinetto in molte case non viene ancora aperto. Nella Valle dell’Agno e del Chiampo sono in costruzione dei nuovi acquedotti, i primi saranno pronti a Natale. Mentre nei primi mesi di quest’anno è stato trovato un accordo per una messa in sicurezza operativa dell’area inquinata sotto la fabbrica, ampliando un sistema di pozzi e filtri, che in buona parte già c’era.
"La falda è come una bustina da tè: queste sostanze, interrate, percolano continuando a contaminare le acque profonde. Una bonifica è necessaria" Dario Muraro - Geometra
Ma secondo gli studi fatti la falda sarà contaminata almeno per i prossimi 80 anni. Per rimuovere o isolare definitivamente le sostanze nocive ci vorrebbe un intervento di bonifica, di cui al momento nessuno vuole assumersi i costi. Dario Muraro, geometra, considera la bonifica integrale del sito necessaria "perché queste sostanze, interrate, percolando non continuino a contaminare le acque profonde. La falda è come una bustina da tè. L’ideale potrebbe essere creare un coperchio isolante sotto la Miteni". Chi dovrebbe pagare, invece, è il proprietario del sito, ovvero Miteni. "Per quanto possa costare, costerà sempre meno dei danni fatti, che sono incommensurabili", prosegue il geometra. Se la Miteni non pagherà, toccherà invece alla Regione. In ogni caso Muraro è ottimista: "Grazie alla spinta della comunità la bonifica è un obiettivo raggiungibile, anche se non possiamo ancora fare previsioni".
Per le Mamme no Pfas e gli altri attivisti che dal 2016 portano avanti questa battaglia, oltre alla bonifica, sono ancora molti i fronti aperti: dai limiti di Pfas negli scarichi, agli screening sanitari per tutti, passando per la sicurezza degli alimenti. Per quel che riguarda i limiti, la Regione Veneto ne ha imposti di severi: 90 nanogrammi per litro per la somma di Pfos e Pfoa e non più di 300 nanogrammi per litro per gli altri. Ma le Mamme No Pfas si stanno battendo per una normativa nazionale. Sull’argomento è netto il parere di Alberto Peruffo, libraio, scrittore, e regista teatrale di Montecchio Maggiore: “La questione limiti sposta sempre il discorso. Il limite è un’amministrazione dell’inquinamento”. Peruffo è stato tra i primi a sollevare il tema dell’inquinamento da Pfas in Veneto, organizzando incontri pubblici, sit-in e marce non violente, fin dal 2016. Secondo lui anche un limite zero agli scarichi non risolverebbe nulla “se non ci chiediamo cosa mangiamo”.
"Gli Pfas nonostante tutto continuiamo ad assumerli, soprattutto tramite il cibo", fa eco Marzia Albiero, attivista della rete vicentina dei Gas (Gruppi d'acquisto solidale) e residente a Creazzo, in zona arancio. Insieme all’acqua, gli alimenti sono la prima fonte con cui si assumono Pfas. “Le aziende agricole della zona rossa sono controllate e devono mettere dei filtri. In zona arancio, invece, non ci sono controlli e chi produce può rivendere sul mercato alimenti contaminati. Quelli che hanno preso provvedimenti, di propria sponte”, spiega Albiero. L’attivista ricorda che alla Regione Veneto è stato chiesto di indicare la georeferenza dei prodotti agricoli, per capire la loro provenienza e prevenire possibili contaminazioni, ma “non ha ancora fatto sapere niente ed è gravissimo”. Intanto l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) ha proposto di abbassare per la seconda volta in due anni la dose settimanale tollerabile di un gruppo di quattro sostanze Pfas, per un massimo di 8 nanogrammi per chilo.
Il processo potrebbe segnare uno spartiacque nei procedimenti per inquinamento ambientale nel nostro Paese, chiamando alla responsabilità chi ha inquinato nonostante fosse a conoscenza da anni della pericolosità di queste sostanze per lavoratori e cittadini. Per il momento si sono costituite 226 parti civili, tra cui le Mamme No Pfas, Legambiente, il Wwf, i ministeri della Salute e dell’Ambiente, la Regione Veneto, diversi comuni e le società che gestiscono le reti idriche colpite
Il procedimento vede imputate 13 persone, tra dirigenti della Miteni, della Mitsubishi e dell’Icig, accusati di disastro innominato (cioè che mette a rischio la pubblica incolumità, ndr) e avvelenamento delle acque, anche se solo fino al 2013. Il giudice delle udienze preliminari, però, sembra voler riunire anche altri due filoni: quello per l’inquinamento da Genx e C6O4, altre due sostanze perfluoroalchiliche prodotte da Miteni dopo il 2013, e quello per la bancarotta fraudolenta dell’azienda.
Un quarto procedimento, aperto contro ignoti, riguarda le lesioni agli ex lavoratori della Miteni, come Renato Volpiana, che ha lavorato 33 anni nella fabbrica dei veleni. “La contaminazione è accertata. Adesso magari si sta bene, ma la preoccupazione è che in futuro questa esposizione possa portare a qualcosa di serio”, ammette. Dallo studio dei mediciPaolo Girardi e Enzo Merler su seicento lavoratori della Miteni tra il 1970 e il 2018 è emersa una mortalità precoce per diverse cause, come il tumore al fegato. L’Inail la settimana scorsa ha riconosciuto per la prima volta come malattia professionale la presenza elevatissima di Pfas trovata nel sangue di due ex dipendenti della Miteni. "Questo riconoscimento è importante perché fissa un principio sui danni che abbiamo subito", commenta Volpiana. "La cosa su cui ci si dovrebbe interrogare è come sia potuto accadere tutto questo in Italia, se in America si parlava del caso Dupont a inizio anni 2000. Bisognava prendere misure prima, ci si chiede chi controllava”.
Nel dibattimento in corso i convitati di pietra sono proprio le istituzioni e gli enti di controllo che, per ora, siedono accanto alle parti civili. Ma sul cui operato c’è ben più di un dubbio. "Spero aprano un filone dove siano chiamati alle responsabilità anche le amministrazioni e chi non ha controllato perchè l’hanno fatta troppo grossa", lamenta Albiero. La piattaforma attivista e di informazione Pfas.land, di cui lei e Peruffo fanno parte, presenterà un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’Uomo (Cedu) contro lo Stato, la Regione, fino ai sindaci dei Comuni. L’accusa è di aver violato quattro articoli della Convenzione sui diritti umani, come quello alla vita, al rispetto della vita privata e del domicilio, e quindi dell’ambiente salubre, il diritto all’informazione e quello al rimedio effettivo in caso di gravi violazioni ambientali. La parola fine è ancora lontana, ma gli spunti su cui interrogarsi molti. Uno su tutti: "Non riesco a capire com’è possibile che in un territorio già martoriato come l’Italia si arrivi a capire sempre in ritardo la gravità di problemi ambientali come questo", dice Volpiana.
Il 15 ottobre la Commissione Ecomafie del parlamento italiano ha ascoltato in audizione i vertici regionali di Arpa in Lazio, Emilia-Romagna e Lombardia, nel corso dell’inchiesta sulla contaminazione da Pfas in Italia. In Lazio sono state registrate concentrazioni sopra la media per i fiumi Astura e Sacco e per i canali Rio Martino e Moscarello, mentre in Emilia Romagna tre aziende sono state definite a rischio. In Lombardia è stata rilevata la presenza, nei fiumi Olona e Po e in un caso nelle acque sotterranee, di C6O4: un composto per il quale attualmente la normativa non prevede limiti. Da queste audizioni e da quanto dichiarato dal presidente della Commissione Ecomafie, Stefano Vignaroli, è emerso come ci siano regioni più avanti e altre più indietro nel monitoraggio di queste sostanze. In Europa, invece, si è arrivati a un accordo preliminare per limitare la presenza di queste sostanze a 0,1 microgrammo al litro, all’interno della Direttiva acque.
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