7 aprile 2021
Non è una vittima, è una luchadora. María Herrera è una contadina del Michoacán (uno stato del Messico, ndr) di 71 anni, dal volto fiero e lo sguardo dolce, incontrata in occasione della terza assemblea di Alas – América Latina Alternativa Social, la rete promossa in questa area del mondo da Libera. Quattro dei suoi otto figli sono stati ingoiati dalla narcoguerra: Jesús Salvador e Raúl, di 24 e 19 anni, il 28 agosto 2008, mentre attraversavano lo stato del Guerrero come rappresentanti di oro. Gustavo e Luis Armando, di 27 e 25 anni, due anni dopo, il 22 settembre 2010 mentre viaggiavano nella zona di Veracruz, anche loro per lavoro. Nel frattempo, María è rimasta vedova, ha perduto la terra e ha dovuto trasferirsi. Eppure non si arrende. È determinata a sapere che cosa sia accaduto a quei figli svaniti misteriosamente. Né vivi né morti, semplicemente scomparsi. Desaparecidos. Parola quest’ultima associata alle dittature militari che, con il supporto più o meno diretto degli Stati Uniti, hanno insanguinato l’America Latina negli anni Settanta e Ottanta. Ovunque i generali al potere facevano sparire gli oppositori politici, reali, potenziali o presunti. Con un doppio obiettivo: evitare, in assenza del corpo, di dover rispondere dei propri crimini e creare, grazie all’ambiguità, un’ondata di terrore paralizzante nell’intera società.
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I desaparecidos della narco-guerra non sono dissidenti. In Messico non c’è un chiaro movente politico né un piano preordinato dal vertice per far scomparire una parte – scomoda – della popolazione. Si svanisce nel nulla per le ragioni più svariate: per essere reclutati come manodopera schiava dai narcos, perché si vuole seminare il panico nel territorio dell’organizzazione rivale, per errore, per creare una tensione permanente all’interno della società. I responsabili possono essere boss mafiosi ma anche agenti di polizia o militari. O, meglio, agenti di polizia e militari catturati, come interi pezzi di Stato, dalle organizzazioni criminali.
Nel caos istituzionale, dunque, nessuno fra le autorità cerca davvero, sgominando le reti di impunità che alimentano la desaparición. Le scomparse oltrepassano quota 84mila, in base ai dati ufficiali. La democrazia messicana, dunque, ha quasi triplicato le cifre della dittatura argentina. E il bilancio reale potrebbe essere tragicamente più alto dato che sette volte su otto le scomparse non vengono denunciati.
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"Per tre mesi, dopo la sparizione di Gustavo e Luis Armando, non sono riuscita nemmeno ad alzarmi dal letto. A salvarmi sono state le quattro sedie vuote intorno al tavolo. Le vedevo tutti i giorni. Non potevo rassegnarmi"Maria Herrera
Nell’inerzia istituzionale, è la società civile a farsi carico delle indagini. “Volevo solo morire. Per tre mesi, dopo la sparizione di Gustavo e Luis Armando, non sono riuscita nemmeno ad alzarmi dal letto. A salvarmi sono state le quattro sedie vuote intorno al tavolo. Le vedevo tutti i giorni. Non potevo rassegnarmi. Se mi fossi lasciata andare, lo sarebbero rimaste per sempre. Dovevo lottare per riempirle, almeno con la verità”. La lotta non violenta, ostinata, indomabile, María l’ha appresa dal poeta Javier Sicilia che, dopo l’assassinio del figlio Juan Francisco, il 27 marzo 2011, ha costituito il Movimento per la pace. Accompagnato da giovani, adulti, anziani, Javier Sicilia ha percorso il Messico da Nord a Sud per denunciare il dolore delle vittime. María ha partecipato alle Carovane. E là ha conosciuto altre madri di tutto il Paese i cui figli non erano morti bensì desaparecidos. “Molte di loro, come me, erano state prese in giro dalle autorità. Quando ho presentato la denuncia, il funzionario mi aveva promesso di richiamarmi al più presto per tenermi aggiornata. Non l’ho mai sentito. Nel fascicolo, come ho scoperto dopo, non aveva nemmeno inserito le foto dei miei figli. Lo stesso era accaduto a tante altre donne del Movimento che avevano creato piccoli gruppi di indagine. Nel 2014, insieme a uno dei miei quattro ragazzi rimasti, Juan Carlos, ho deciso di collegare le varie realtà nate sul territorio”. È nato, così, “Familiari in ricerca”: una rete di 60 collettivi, diffusa in 25 dei trentadue Stati messicani. Questa forza cittadina ha trovato migliaia e migliaia di resti, ricostruito altrettante storie. Non solo. Proprio la battaglia pacifica delle mamme ha fatto sì che finalmente, dopo i rifiuti dei governi di Felipe Calderón e Enrique Peña Nieto, alla fine, il Messico riconoscesse la competenza del Comitato Onu contro le scomparse forzate sulla questione. A ottobre, il sottosegretario per i Diritti umani, Alejandro Encinas Rodríguez, ha invitato l’organismo ha visitare il Paese per realizzare un lavoro comune. Un primo passo ma molto importante in un Paese dove 98 delitti su 100 restano impuniti.
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María, nel frattempo, va scoprendo frammenti di verità. “Con tutta probabilità, ho saputo che i miei primi figli scomparsi sono stati rapiti e uccisi perché si sono trovati nel mezzo di uno scontro fra bande rivali. Si sarebbero trovati nel momento sbagliato nel posto sbagliato”. Sugli altri due, invece, non c’è ancora alcuna pista. “Continuerò a cercare. A cercare e a cercare ancora. Vivo con il dolore attaccato alla pelle. Ma non posso permettergli di sopraffarmi”, dice María mentre indica la maglietta bianca che indossa sopra il maglione. Ci sono stampate le foto di Jesús Salvador, Raúl, Gustavo e Luis Armando. “Sono qui, presenti. Io li ricordo. Non sono riusciti a cancellarli. A silenziare il loro grido di vita e di giustizia. Attraverso di noi, la loro voce risuona in Messico finché il potere non la ascolterà”.
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