Il monumento per i diritti dei migranti installato di fronte all'ambasciata statunitense a Città del Messico
Il monumento per i diritti dei migranti installato di fronte all'ambasciata statunitense a Città del Messico

In Centroamerica non si fermano i massacri dei migranti: "Non smetteremo di denunciare"

Iduvina Hernandez, attivista guatemalteca per i diritti umani, ha fondato l'ong Seguridad en Democracia (SeDem) ed è da anni minacciata per il suo impegno per la giustizia a favore dei migranti, contro le uccisioni e la chiusura delle frontiere

Giulia Poscetti

Giulia PoscettiReferente del settore internazionale di Libera - area America Latina

24 febbraio 2021

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Dora Amelia Lopez era insieme a nove concittadini del Guatemala e ad altri migranti centroamericani mentre viaggiava in un minibus per attraversare la frontiera degli Stati Uniti dallo Stato messicano di Tamaulipas. Originaria di Sipacapa, nel dipartimento di San Marcos, Amelia aveva 23 anni, lavorava come contabile e il suo sogno più grande sarebbe stato vedere i propri figli continuare a studiare e laurearsi. Ma non è stato possibile. Lo scorso 23 gennaio il suo corpo, con quello di altre 18 persone, tutte tra i 15 ed i 25 anni, è stato trovato carbonizzato dalla polizia locale nel veicolo in cui viaggiava. Il martedì successivo è stato annunciato l’arresto di dodici poliziotti statali per aver partecipato al massacro, con le accuse di omicidio volontario, abuso di autorità e falsa testimonianza. Il massacro di Tamaulipas ha ridestato l’attenzione sulle violazioni che continuano ad essere commesse contro chi prova a raggiungere gli Stati Uniti.

Il 29% dei migranti che attraversano il Messico è vittima di violenze fisiche, psicologiche o sessuali, abusi che restano impuniti

Un migrante su tre subisce violenze durante il viaggio attraverso il Messico, inoltre il timore di essere rimpatriati e la sfiducia nelle autorità fanno si che vengano denunciati solo il 10 per cento dei casi. Un’indagine dell’Istituto nazionale di Salute pubblica, dell’Università Autonoma del Messico e di Città del Messico ha infatti evidenziato che il 29 per cento dei migranti è vittima di violenze fisiche, psicologiche o sessuali, abusi che restano impuniti. I migranti centroamericani scappano dalle violenze perpetrate nei loro paesi di origine, ma finiscono inevitabilmente per imbattervisi lungo il tragitto che dovrebbe portarli verso una vita migliore.

Nel 2019 il 21% dei migranti globali (circa 272 milioni di persone) si è spostato verso il Nord America. Per l'Iom sono stati 26 milioni

Eppure, secondo i dati del Dipartimento per gli Affari economici e sociali delle Nazioni Unite (Un|Desa), la rotta verso il Nord America continua ad essere tra i principali corridoi migratori, pur con tutte le sue complessità. Nel 2019 erano 272 milioni i migranti stimati a livello mondiale, di questi oltre il 21% era presente nell’area nordamericana. Inoltre il Rapporto 2020 dell’ International organization for migration (Iom) riporta che 26 milioni di persone, sempre lo stesso anno, hanno viaggiato dal Sud al Nord-America. È più difficile conoscere il numero approssimativo di migranti centroamericani che transitano in Messico, il ministero degli Esteri del paese dichiara circa 500mila migranti all'anno.

Capire i dati, ripensare linguaggio e categorie tradizionali sono azioni necessarie per andare oltre la criminalizzazione de migranti

La pandemia non ferma le partenze

Neanche l’emergenza causata dalla pandemia, il rischio potenzialmente alto del contagio che si aggiunge agli altri pericoli e alle politiche xenofobe dei paesi di transito, hanno disincentivato la decisione di intraprendere un viaggio le cui sorti restano del tutto incerte. La moltitudine di migranti si è trovata in questo ultimo anno privata di qualsiasi forma di assistenza, anche sanitaria, e le poche realtà che prima fornivano un riparo lungo la via, per riposare e recuperare le energie, i cosiddetti albergues de los migrantes, ora non possono più offrire neanche questo. Si è costretti a dormire all'addiaccio, lungo il ciglio delle strade, per due, tre ore e poi riprendere il viaggio. Il massimo che possono ricevere da queste associazioni è un cambio di vestiti, nel migliore dei casi qualche medicina, un pasto, ma per il resto si è esposti costantemente alle intemperie e agli imprevisti.

La loro “colpa” è quella di essere indocumentados (irregolari) quindi privi di diritti e della possibilità di accedere alla giustizia. Questo è il prezzo da pagare per un desiderio profondamente umano, quello di offrire a sé stessi e alle proprie famiglie un futuro più dignitoso.

La giornalista guatemalteca e difensora dei diritti umani Iduvina Hernandez, fondatrice dell’ong Seguridad en Democracia (SeDem), realtà legata alla rete latinoamericana di Libera, è da anni minacciata per il suo impegno per la giustizia nel paese e pertanto inserita in un meccanismo di protezione internazionale. Secondo l’attivista i cosiddetti paesi del “triangolo del nord” - Guatemala, Honduras, El Salvador - sono paesi expulsores (che espellono) per eccellenza:

“Secondo la logica di un’economia grottesca il prodotto di maggiore esportazione di questi paesi è la sua stessa gente. Migliaia di persone sono obbligate ad abbandonare le proprie terre, case e affetti perché dove vivono non vedono garantite le condizioni minime per una vita degna, neanche alla stregua della sopravvivenza. Mancano le possibilità per emanciparsi da condizioni di povertà, per costruirsi un futuro e i tassi di sottoccupazione e di disoccupazione sono in costante crescita, situazione peggiorata con la pandemia”

Le opportunità lavorative vigenti non possono definirsi “opportunità” per la stragrande maggioranza della popolazioni, ma lavoretti sottopagati – il 70 per cento di queste economie si basa sull’informalità lavorativa anche di bambini e anziani – che non permettono alle famiglie di soddisfare le necessità di base. A ciò si aggiunge la mancanza di un sistema di protezione sociale che consenta l’accesso al servizio sanitario pubblico e a un’istruzione di qualità.

Lungo le rotte si incontrano trafficanti, ma anche persone ordinarie, disposte a tutto pur di sostenersi

Violenze e migrazioni forzate

"Noi familiari non ci stancheremo mai di denunciare la mancanza di volontà delle istituzioni messicane per localizzare i nostri cari che emigrano”Iduvina Hernandez

In tale contesto, aggiunge Iduvina Hernandez, imperversa il controllo territoriale di maras e pandillas (bande criminali giovanili presenti in tutti e tre i paesi centroamericani), soprattutto nei quartieri più poveri: “Tutti sono sottoposti ad un giro di estorsione, obbligati a pagare una quota alle bande per circolare o per andare a lavorare, anche per aprire un piccolo negozio. Obbligati per evitare di vedere le proprie figlie violentate dopo i 15 anni dai componenti di questi gruppi. Non vi è da stupirsi se molte famiglie vedono nell’emigrazione l’unica possibilità di scappare dalla violenza delinquenziale, che si somma a quella strutturale”. Inoltre il cambiamento climatico, con il conseguente aumento della siccità, ha portato diverse comunità contadine e indigene della regione a vivere situazioni di insicurezza alimentare e vedersi costrette a spostarsi.

A intraprendere il viaggio sono soprattutto persone tra i 20 ed i 40 anni, ma non mancano bambini e adolescenti, alcuni dei quali non accompagnati, per esempio nei casi in cui i genitori si trovino già negli Stati Uniti (l’Unicef ne calcola al momento 700 al confine che stanno cercando di andare negli Stati Uniti), così anche persone anziane che, in assenza di protezione sociale o di una rete di sostegno, non hanno altra opzione se non quella di lasciare il proprio paese.

La migrazione forzata così massiccia ha permesso negli anni il rafforzamento di strutture criminali legate alla tratta di persone. Strutture con legami transnazionali che si occupano principalmente di far cadere nella propria rete le vittime, dando la speranza, spesso totalmente illusoria, di far arrivare i migranti a destinazione. I numerosi sequestri, i casi di violenza sessuale contro donne e bambine, i massacri, le fosse comune rientrano nella logica della disputa territoriale tra gruppi criminali, lungo la via illegale del traffico di persone. È una strategia efferata per indebolire il gruppo rivale. L’organizzazione colpita, attraverso il passaparola tra chi è in transito e chi deve ancora partire, perderà la sua “clientela” quindi potere sul territorio, visto che chi vuole emigrare opterà per l’opzione fornita dalla “compagnia di viaggio” più sicura.

Tamaulipas, dove Dora Amelia Lopez è stata assassinata con gli altri giovani migranti, è da due decenni uno degli stati messicani più logorati da questo tipo di violenze ed essendo confinante con il Texas è anche uno dei principali passaggi per chi vuole entrare negli Stati Uniti. Secondo alcuni testimoni un commando del Cartello del Nordest (Cdn) il giorno prima del massacro era entrato nella regione alla ricerca del capo del gruppo rivale, il Cartello del Golfo (Cdg). Dopo lo scontro il Cdn ha localizzato i 19 migranti, uccidendoli sul posto e abbandonando i corpi dove poi sono stati ritrovati dalla polizia. Il conflitto tra i due cartelli per il controllo degli Stati del Nord-Est, iniziato a marzo 2010, ad oggi ha causato più di 15.000 desaparecidos e migliaia di morti. Solo nell’anno passato a Tamaulipas si sono registrati 571 omicidi. Le bande criminali sono responsabili in questa zona delle peggiori efferatezze, uno dei casi più terribili, il massacro di san Fernando, avvenuto tra il 22 e il 23 agosto 2010, è stato l’assassinio di 72 migranti - 58 uomini e 14 donne – nel Municipio San Fernando.

Lo scorso agosto le reti di attivisti messicane e di familiari di desaparecidos si sono riunite a Città del Messico per ricordare con un atto commemorativo il tragico evento: "Questa mattina installiamo un anti-monumento davanti all’Ambasciata degli Stati Uniti, un anti-monumento che significa memoria, che significa 10 anni di impunità, 10 anni dall’assassinio brutale di 72 migranti a San Fernando, crimine per il quale ancora non è stata fatta giustizia. Un simbolo per ricordare le centinaia di migliaia di migranti desaparecidos e quelli che continueranno ad essere vittime di desaparicion (sparizione) transitando per questo paese e che le autorità non vogliono considerare, non vogliono cercare. Noi familiari non ci stancheremo mai di denunciare la mancanza di volontà delle istituzioni messicane per localizzare i nostri cari che emigrano”.

Questo avvenimento, come la gran parte delle azioni criminali contro i migranti, resta infatti nella totale impunità. Non è stata ancora emessa una sentenza per i fatti di San Fernando e si sa solo, in base ad alcune ricostruzioni, che i responsabili sono componenti del cartello narcos Los Zetas in quanto organizzatori del sequestro, affare che resta tra i più redditizi per i gruppi criminali, ed esecutori della strage. 

Secondo Stephen Castles viviamo nell'era delle migrazioni

Le politiche di Trump contro i migranti

Da inizio 2019 Trump ha obbligato 67 mila persone, provenienti da Honduras, Guatemala, El Salvador e Méssico, a fare richiesta di asilo in Messico

I numeri delle violenze negli ultimi anni non sono diminuiti. L’organizzazione Human Rights First ha pubblicato a gennaio 2021 un dossier che documenta 1.300 casi di omicidi, torture, sequestri e altre violazioni commesse contro i richiedenti asilo, rimasti bloccati nelle violente città messicane del confine, secondo quanto stabilito dal programma statunitense ”Remain in Mexico” (Resta in Messico). Da inizio 2019 il governo di Donald Trump, attraverso questo meccanismo “di protezione”, ha infatti obbligato 67 mila persone, provenienti da Honduras, Guatemala, El Salvador e Méssico, a fare richiesta di asilo sul territorio messicano lasciandole in uno stallo burocratico indefinito, oltre che in condizione di totale vulnerabilità in aree del paese dove dominano le connivenze tra organizzazioni criminali e autorità e dove sono all’ordine del giorno le dispute per il controllo dei territori tra cartelli. Sulla stessa scia è la strategia, sempre trumpiana, di decretare il Guatemala come “Safe Third Country”, obbligando i migranti a fare richiesta di protezione prima che negli Stati Uniti, in Guatemala, pur non avendo il paese nessun parametro consono per essere considerato “sicuro”, considerati gli alti indici di violenza e corruzione, la crisi economica e le frequenti violazioni dei diritti umani. 

Come spiega Hernandez, “i governi del Triangolo del Nord e quello messicano sono diventati i paesi gendarmi della politica migratoria degli Stati Uniti e lo dimostra la repressione feroce dello scorso gennaio contro l’ultima carovana di migranti partita da San Pedro Sula, città hondurena in cui si registra un omicidio ogni 24 ore, nota per essere una delle zone più violente del mondo, ora anche devastata dagli uragani Eta e Iota. La carovana, formata da 9mila persone, è stata repressa sia in Honduras sia in Guatemala in palese violazione delle leggi nazionali vigenti, nel caso guatemalteco del codice migratorio e della Costituzione che riconosce il diritto a transitare liberamente sul territorio guatemalteco a tutti i cittadini centroamericani, secondo il Trattato di “Seguridad Democratica” e dell’Accordo CA4. In questo modo una carovana, composta da donne, uomini, bambini, che già era annunciata da tempo a livello mediatico e per la quale le autorità avrebbero dovuto attivare tutti i protocolli di sicurezza e protezione è diventata vittima di una violenza insensata. È stato finanche decretato lo stato d’eccezione pur di poter utilizzare le forze militari per reprimere la marcia. Non si trattava di una emigrazione effettuata nell’ombra, come quella in mano ai coyote, i trafficanti di persone, o sul retro della Bestia (così è chiamato il treno merci usato dai migranti per arrivare fino a Tijuana, al confine con gli Stati Uniti, ndr), eppure questo non è stato sufficiente per evitare l’uso della forza. Nessuno dei governi coinvolti, Honduras, Guatemala e Messico, ha di fatto agito in difesa della propria popolazione”.

Con o senza Carovana, dirigersi verso il nord, verso gli Stati Uniti, resta per centinaia di migliaia di persone l’unica occasione per lasciare una regione, quella centroamericana, segnata dall’ingiustizia sociale e dall’instabilità. Sebbene già arrivino i primi segnali a dimostrare che l’amministrazione Usa guidata da Joe Biden voglia marcare una differenza con la precedente, come aver bloccato il progetto della costruzione dell’immenso muro lungo la frontiera e aver smantellato il programma “Remain in Mexico”, la strada è comunque ancora molto lunga. Mancano politiche di protezione per i migranti, troppo esposti alle logiche dei gruppi criminali, così come manca una strategia a lungo termine per gestire il fenomeno. Tutto è ancora solo sulle spalle delle associazioni sociali, laiche e religiose, che si espongono pur di dare sostegno ai migranti, diventando anch’esse bersaglio della criminalità. Lo stato d’emergenza prodotto dalla pandemia ha inoltre permesso di instaurare meccanismi repressivi e xenofobi che dovranno essere interrotti se si vorranno vedere all’orizzonte dei cambiamenti effettivi sulle politiche migratorie. Per adesso è urgente che la comunità internazionale si attivi in un’azione seria e attenta di monitoraggio affinché vengano rispettati diritti dei migranti e non restino nel silenzio e nell’impunità i crimini transnazionali di cui sono vittime.

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