Le parole di Lucarelli: raccontare

Scrivere è come mettere una mano davanti a una locomotiva. A volte funziona e quella si ferma

Carlo Lucarelli

Carlo LucarelliScrittore, sceneggiatore e conduttore televisivo

3 maggio 2021

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RACCONTARE

Verbo transitivo e intransitivo. 1. Riferire qualcosa, specialmente a voce, dire. Esporre, a voce o per iscritto, una vicenda, una storia.

Un narratore è una persona che se un giorno incontrasse un gigante, o una fata che gli dicesse "puoi vivere felice cent’anni su un’isola sperduta, a fare le cose più belle con tutte le persone che ami", ecco il narratore risponderebbe: "Si può fare novantanove? Così l’ultimo torno indietro e lo racconto". I narratori sono così. Io sono così. Noi che raccontiamo per vocazione, lo facciamo anche per necessità. Perché è bello, è una cosa incredibilmente gratificante anche quando è dolorosa, anche quando vuoi tirare fuori cose che fanno male, è bello lo stesso, bellissimo. Addirittura, quando ci succede qualcosa di notevole, neanche la viviamo tutta fino in fondo, impegnati già a pensare le parole e le immagini con cui la racconteremo. La sequenza con cui la monteremo. Se no, quasi quasi, non esiste. 

Un giorno, per esempio, ad una mia amica è successo di cadere dalla finestra mentre si sporgeva a stendere i panni. Non si è fatta niente, primo piano e su un cespuglio, però volare giù dalla finestra mica succede tutti i giorni. Allora è corsa a suonare alla vicina di casa, ma non c’era nessuno, è andata da quella che stava di sopra, ma non c’era neanche lei, ha telefonato a sua mamma, ma non ha risposto. Così si è messa a lavare i piatti e quando il marito è tornato dal lavoro e le ha chiesto com’era andata la giornata, gli ha risposto "le solite cose" e, solo dopo un bel po’, "ah già, sono caduta dalla finestra".

Detta così e basta sembra una cosa un po’ da psicopatici, un’ossessione che hai e che fai solo per te e con te. E infatti l’ultima definizione del mio dizionario, la 6, dice: parlare di sé, della propria vita ed esperienza, e spesso viene riassunta con l’immagine del narratore – lo scrittore, soprattutto – che si guarda l’ombelico. Ma attenzione, perché c’è anche la definizione numero 3: esporre con ordine, passare in rassegna.

In ogni numero de lavialibera, Carlo Lucarelli analizza con una storia i molti significati di una parola. Leggi la sua rubrica

Prima o poi, presto o tardi, ognuno di quelli come noi ha fatto un salto sulla sedia quando ha letto lo stracitato articolo di Pier Paolo Pasolini che era uscito sul Corriere della sera il 14 novembre 1974 sotto il titolo "Che cos’è questo golpe?". Stracitato perché vero, più noto come "Il romanzo delle stragi", il romanzo, appunto. P.P.P. diceva: io so, perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace, ma soprattutto che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, e alla fine che ristabilisce la logica, là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. A parte quest’ultimo accenno al mistero, che ha fatto venire i brividi a noi scrittori di noir in particolare, eccola qua una delle funzioni di chi racconta: mettere in scena meccanismi, mettendo in fila i fatti con quella sequenza e quella sintesi che la narrativa, e qualunque altra forma di espressione quando diventa tale, riescono a costruire. Tutto questo, dice P.P.P., fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere.

Bene, allora, raccontare è divertente e istintivo, ma a che serve? Alla fine, restiamo sempre nell’ambito del punto 6. No, non credo, e per illustrarlo, appunto, ricorro a un altro autore stracitato, almeno da me, ma perché anche questo è vero. Giorgio Scerbanenco, grande autore di noir e non solo degli anni Sessanta, racconta una storia di quando rispondeva alla posta dei lettori dei settimanali cosiddetti femminili. Dice che un giorno gli arriva la lettera di una persona che si vuole suicidare. Dice che di lettere così, ai settimanali come il suo, ne arrivano a decine, ma quella conteneva una reale volontà di morte. Allora lui ci si mette d’impegno, scrive meglio che può i motivi per cui non si deve rinunciare alla vita e pubblica la risposta sul giornale. Un mese dopo legge su un quotidiano di una persona che ha cercato di uccidersi e capisce che è la stessa. Vedi, dice, cercare di fermare quella volontà di morte con la mia scrittura era come mettere una mano davanti a una locomotiva.

Poi, però, passa un po’ di tempo e di lettera come quella ne arriva un'altra. La persona che ha scritto ha allegato l’indirizzo, così Scerbanenco le scrive raccontandole perché dovrebbe amare la vita invece di volerci rinunciare. La persona gli risponde che lui è molto bravo, un vero scrittore, ma lei si ammazza lo stesso. Scerbanenco insiste e la persona gli risponde ancora che grazie, sì, è tutto giusto, per carità, ha ragione, ma lei si ammazza lo stesso. Sono passati cinque anni, racconta Scerbanenco, ci stiamo ancora scrivendo. Quella persona non si ammazza più, e allora vedi che a volte mettere la mano davanti alla locomotiva funziona e quella si ferma? Qualche volta accade, e allora penso che il mio mestiere di scrivere non è inutile. Ecco perché raccontare è importante.

Certo, per ogni cosa c’è sempre una metà oscura, e questa, nel dizionario, è rappresentata dalla voce numero 4: 

RACCONTARE

4. Nella forma ‘raccontarla’, far credere vero ciò che non lo è, darla a intendere.

Da lavialibera n°8 2021

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