21 luglio 2021
Si ricorderà di quel pomeriggio, 20 maggio, un giovedì. Mentre pedala nella dodicesima tappa del Giro d’Italia, Elia Viviani apprende dal suo direttore tecnico che sarà il primo ciclista nella storia ad avere l’onore di portare il tricolore a Tokyo 2020, l’Olimpiade rimandata per Covid che si terrà nel 2021. E per la prima volta sarà insieme a una donna, Jessica Rossi, campionessa di tiro a volo. "Sapevo di essere tra i papabili. Quando mi hanno ufficializzato la notizia, ero nel pieno della tappa in salita che da Siena porta a Bagno di Romagna: non sono uno scalatore ma in quel momento ho smesso di sentire la fatica, pedalavo felice".
Il ciclismo paga gli sbagli degli anni ‘90. Oggi gli imbecilli che si dopano sono pochi
Elia Viviani, di Isola della Scala, in provincia di Verona, 32 anni, è un fior di velocista. In pista ha conquistato l’oro olimpico a Rio 2016, più sette titoli europei e due medaglie mondiali. In strada, è arrivato a più di 80 vittorie, comprese tappe di Giro, Tour e Vuelta. Più grande di tre fratelli, da bambino giocava a calcio con un padre pilota di rally. E da dove spunta la bici? Un suo compagno di classe faceva ciclismo, così un giorno ci provò anche lui. E a nove anni comincia la sua avventura. Professionista dal 2010, Elia ha pedalato in media 25 mila chilometri l’anno, con punte di 32 mila.
Come è cambiata la tua vita dal 20 maggio?
Ho addosso una grande felicità, ma anche una responsabilità. Essere la guida, insieme a Jessica Rossi, di tutta la spedizione azzurra mette i brividi. Provo a immaginarmi quella scena. Mi vedo davanti a tutti gli atleti, essere per loro uno stimolo e un esempio, nella speranza di vincere più medaglie possibili.
Conosci Jessica Rossi?
Non personalmente. Comunque ho apprezzato molto l’idea di sdoppiare questo onore.
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Che cosa rappresenta per te l’Italia?
L’Italia è amore, un paese meraviglioso, le mie radici. Può sembrare piccola se guardiamo il mappamondo ma è gigante per storia, cultura, per il segno di sé che ha lasciato.
Dove ti senti a casa?
In tre città diverse. A Verona come nucleo familiare, la città dove sono cresciuto. Poi Udine dove ho incontrato la mia fidanzata, Elena, ciclista anche lei. E Livigno, dove mi alleno per un paio di mesi all’anno e costruisco i miei sogni.
Dove tieni la medaglia olimpica?
A casa, in un mobile sopra la tv. Ha una custodia molto bella: una conchiglia di legno che si apre a ruota. La guardo spesso, soprattutto in questo periodo di preparazione, perché ne vorrei un’altra.
Ti senti più a tuo agio in pista o su strada?
Il ciclismo storico è su strada, è emozionante il Giro d’Italia, è stato bellissimo vestire la maglia tricolore come campione italiano. Ma la pista per me è casa.
"Lo sport di base è un bisogno primario"
Sono due specialità diverse, cambia anche l’allenamento?
La sveglia è intorno alle 8. Una colazione abbondante, per noi è uno dei pasti più importanti. Un’omelette con pane e prosciutto, più yogurt con del muesli. Alle dieci si parte in bici, la giornata prevede dalle quattro alle sei ore di bicicletta. A fine allenamento, un’ora di massaggio per il recupero. E poi un po’ di relax con qualche serie tv. A cena, se il giorno dopo è tosto, un secondo e ogni tanto un dolce; se invece è una seduta più leggera, può bastare una tagliata di manzo. La preparazione per la pista è abbastanza simile, ma gli allenamenti sono due e più corti, con qualche seduta in palestra perché lo sforzo è molto più muscolare.
Quando stai dalle quattro alle sei ore in bici, quando sei un professionista, la differenza la fanno i dettagli. Le vittorie si costruiscono nei lunghi mesi di fatica, di rinunce, di momenti in cui la sera ti domandi chi te lo fa fare.
È quella famosa domanda passata nella testa di ogni atleta. Ma se sono qui dopo più di dieci anni di carriera è perché la passione che resta viva. Uno sportivo che vive di quello che ama fare è fortunato. Dobbiamo ricordarcelo. Siamo dei privilegiati.
Quanto è importante l’attività sportiva nella crescita di un giovane?
A me ha dato tanto, mi ha insegnato a vivere. Ma lo sport più importante non è quello competitivo, che semmai è il sogno del ragazzino che vuole arrivare primo. Lo sport che cambia davvero la vita è quello praticato da bambini, perché ti abitua a rispettare le regole, gli orari, ad avere una relazione con gli altri, a conoscere il tuo corpo, il tuo potenziale, e anche i tuoi limiti. Nell’adolescenza può proteggerti dalle strade sbagliate. Da adulti, è salute, ti fa sentire leggero, ti aiuta a sgretolare le tensioni del quotidiano.
"La scuola italiana bocciata nello sport"
Quando si pensa al ciclismo, c’è spesso un’associazione al tema doping, agli scandali che lo hanno travolto, ai campioni che hanno tradito.
Sì, paghiamo ancora questa etichetta degli anni Novanta. Ma da un bel po’ il ciclismo è uno degli sport più trasparenti. Sicuramente c’è ancora qualche imbecille che cade nel tranello. Ma sono casi sporadici. I team hanno ormai dei regolamenti interni rigidissimi. Prima di prendere una pomata, una pastiglia, qualsiasi cosa, dobbiamo chiamare il dottore per essere sicuri che non ci siano problemi. Siamo, atleticamente parlando, in libertà vigilata. Abbiamo una piattaforma dove dobbiamo comunicare dove siamo a qualsiasi ora e in qualsiasi momento della giornata. L’antidoping può raggiungerti quando lo decide. E tu devi essere dove hai scritto che sei.
Il conto alla rovescia verso Tokyo è iniziato. Sei scaramantico?
No, ma sono maniaco. Controllo che tutto sia a posto: vestiario, bici. E nelle cuffiette, sempre Ligabue, il mio preferito.
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