4 agosto 2021
Anno domini 2021. La pagina Wikipedia (in italiano) dedicata all’allevamento intensivo si apre con tre box di allarme. Gli utenti sono avvertiti: la voce che segue è potenzialmente imprecisa. Poche fonti, definizioni parziali e diverse informazioni che suonano “false e non contestualizzate”. Insomma, non c’è da fidarsi. La circostanza, di per sé, non ha nulla di eccezionale. D’altra parte, la celebre enciclopedia digitale non è infallibile. Allo stesso tempo, però, la resa dichiarata di Wikipedia è sintomatica. Gli allevamenti intensivi sono un argomento divisivo, siano essi di mucche, pecore, polli, tacchini o maiali. Un terreno su cui si scontrano interessi diversi e si intrecciano questioni complesse. I piani toccati sono molti e spesso in conflitto, dall’ambiente all’economia, dalla salute umana e animale all’etica. Il risultato è una selva di dati, di opinioni, di racconti in cui è difficile orientarsi. I conti delle statistiche spesso non tornano e si finisce assaliti da un sospetto, cioè che tanta confusione, in realtà, sia voluta. A questo punto, ci si può arrendere, oppure si può provare mettere ordine.
E il primo passo da fare per provare a riordinare la selva oscura è quello di definirne i confini. Cos’è un allevamento intensivo? Quali sono le sue caratteristiche?
Da un punto di vista fisico, gli elementi qualificanti sono due:
Il modello si contrappone nettamente a quello degli allevamenti estensivi, che invece cerca di riprodurre il più fedelmente possibile le condizioni di vita che gli animali avrebbero in natura
Questi due elementi da soli, però, non sono sufficienti a inquadrare il fenomeno. C’è tutta una dimensione organizzativa e gestionale che non può e non deve essere ignorata, perché qualificante. La forza che ha determinato il successo degli allevamenti intensivi, infatti, è il loro presentarsi come una forma estrema di industrializzazione, con massiccio uso di tecnologie e medicinali (soprattutto antibiotici) e programmazione minuziosa di ogni dettaglio, dalla selezione delle razze fino al controllo del quantitativo di acqua a disposizione del bestiame. Non a caso, vengono definiti anche allevamenti industriali. Il modello si contrappone nettamente a quello degli allevamenti estensivi, che invece cerca di riprodurre il più fedelmente possibile le condizioni di vita che gli animali avrebbero in natura.
Secondo la “leggenda”, il primo allevamento intensivo nacque per caso, quando a Celia Steele, piccola contadina del Delaware, furono recapiti erroneamente 500 pulcini, al posto dei 50 che aveva richiesto. La signora, invece di mandare indietro i pennuti in eccesso, decise di tenerli e riuscì anche a fargli superare l’inverno, rinchiudendoli in un capannone e alimentandoli a mais e integratori. L’azzardo riuscito la rese intraprendente e, negli anni successivi, la donna trasformò quell’errore iniziale in una prassi, diventando milionaria.
Al di là della vicenda personale della signora Celia, la verità è che a partire dal secondo dopoguerra, per tutto il ‘900, la diffusione degli allevamenti industriali è cresciuta in modo esponenziale. E la tendenza continua ancora oggi. Secondo il CIWF - Compassion in World Farming, nel mondo, ogni anno, vengono allevati circa 70 miliardi di animali e l’80% si trova in strutture con approccio intensivo. Si tratta di ovini, bovini, suini, tacchini e polli. L’Italia viaggia perfettamente in media con il resto del mondo e la maggior parte degli allevamenti intensivi è localizzata nel nord, tra Piemonte, Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna. Nello specifico, nel nostro paese ci sono circa 9 milioni di bovini (il 75% in allevamenti intensivi) e 8,5 milioni di suini (praticamente tutti allevati industrialmente).
Le ragioni di tanto successo sono semplici da individuare e sono essenzialmente economiche. Una modalità industriale di allevamento del bestiame consente di produrre di più e a costi contenuti, massimizzando i profitti. Le tecnologie per il controllo e l’uso di antibiotici garantiscono l’abbattimento dei rischi di malattie dell’animale. La gestione di cibo e acqua, invece, fa aumentare il peso e quindi la resa in termini di macellazione. Infine, la necessità di un ridotto spazio pro-capite permette di allevare più capi di bestiame a parità di terreni disponibili.
Ai vantaggi economici e produttivi, però, fanno da contraltare diverse “ombre”, su cui si appuntano le critiche dei sempre più numerosi detrattori degli allevamenti industriali. Le criticità sollevate hanno a che fare con l’impatto che queste fabbriche di carne hanno sull’ambiente, sulla salute umana e sull’economia. Problematiche complesse e divisive, a cui si aggiungono questioni etiche, legate allo sfruttamento degli animali e alle violenze a cui vengono sottoposti. Temi che meritano di essere affrontati singolarmente.
Partiamo dalle questioni ambientali. Cosa possono mai avere a che fare gli allevamenti industriali con questioni globali come l’inquinamento e il cambiamento climatico? Molto, in realtà. La cinghia di trasmissione è ben spiegata nel rapporto “12 passi per la terra e il clima”, confezionato Terra!.
L’agricoltura, secondo i dati diffusi dall’associazione ambientalista, è responsabile del 23% delle emissioni globali di gas serra. Una quota che sale al 37% se si allarga il perimetro, includendo tutta la filiera del cibo (dallo stoccaggio fino alla commercializzazione, passando per il trasporto). Gas serra che, per la maggior parte, sono imputabili proprio agli allevamenti (soprattutto di bovini), visto che l’80% dei terreni agricoli nel mondo è destinato ad alimentare il bestiame (con il dominio incontrastato delle produzioni di mais e soia). Uno studio di Scienze rende ancora più plastica e visibile la questione: per produrre 1 kg di carne bovina si emettono 60 kg di gas serra, mentre ne servono 25 kg per quella ovina e 21 kg per il formaggio.
In Italia, ad esempio, stando alle stime di Terra!, è il settore agricolo che manda in atmosfera più metano (44,7% del totale) e protossido di azoto (59,4%). Il primo deriva prevalentemente dalla digestione degli animali, il secondo dalla gestione dei loro rifiuti reflui. Inoltre, il comparto dell’allevamento produce 14,2 milioni di tonnellate di CO?eq, mentre altri 5,6 milioni di tonnellate sono ascrivibili allo stoccaggio del letame. Si tratta di quasi due terzi di tutta la CO? prodotta nel paese (30 tonnellate).
“Se parliamo di mera efficienza”, sottolinea, “risulterà che per produrre un litro di latte il modo migliore è l'allevamento intensivo, perché relega un numero maggiore di animali in uno spazio inferiore rispetto a quello estensivo e utilizza mangimi iperproteici e razze selezionate per la massima produttività”Fabio Ciconte - Presidente associazione Terra!
Il tema dei rifiuti da smaltire (soprattutto deiezioni) è uno degli elementi cardine del problema. Qualcuno pensa che lo si possa risolvere potenziando gli impianti che producono energia da biomasse. In questo modo, infatti, i rifiuti diventano carburante e non vengono più rilasciati in natura. Secondo l’analisi di Terra!, però, si tratta di una soluzione che genera nuove criticità. Infatti, anche gli scarti delle coltivazioni di mais e soia sono utili per produrre energia e sono anche più efficienti. Il proliferare di impianti di biogas, quindi, innescano una nuova concorrenza nel consumo di suolo, fra i terreni destinati ad allevare bestiame e quelli finalizzati a produrre energia. Una lotta fratricida fra cibo e carburante, sempre a danno dell’ambiente.
La conclusione di quanto detto finora sembra pacifica: gli allevamenti intensivi inquinano. Tutti d’accordo? Ovviamente no. Anzi, i fautori di questo modello produttivo sostengono il contrario, affermando che, negli anni, l’emissione di gas serra imputabile all’allevamento di bestiame è crollata del 60%, proprio grazie all’industrializzazione. Il metodo di calcolo utilizzato per arrivare a questa conclusione è il Life Cycle Assessment, che analizza l’impatto ambientale per unità di prodotto. Proprio questa enfasi posta sull’efficienza produttiva, però, rappresenta il limite di questo sistema, come spiega Fabio Ciconte, Presidente di Terra!. “Se parliamo di mera efficienza”, sottolinea, “risulterà che per produrre un litro di latte il modo migliore è l'allevamento intensivo, perché relega un numero maggiore di animali in uno spazio inferiore rispetto a quello estensivo e utilizza mangimi iperproteici e razze selezionate per la massima produttività”. Il cuore del problema è proprio questa rincorsa della performance. “Non possiamo limitarci a valutare l'impatto ecologico con questo metro di misura”, prosegue Ciconte, “perché l'alternativa non è allevare la stessa quantità di animali all'aperto; la risposta dev'essere più complessiva e imporre una riduzione drastica del numero di animali allevati, non solo un cambio di metodi”.
L’impatto ambientale degli allevamenti intensivi ha senza dubbio anche delle conseguenze sul benessere dell’uomo. Le implicazioni tra industrializzazione dell’allevamento di bestiame e salute umana, però, vanno oltre questa correlazione indiretta con l’inquinamento. In ballo, infatti, c’è anche la qualità della carne prodotta, con due temi su tutti, quello dell’antibiotico resistenza (legata la massiccio uso di antibiotici negli allevamenti) e quello del ruolo delle fattorie intensive nello sviluppo di pandemie (come quella da Covid-19).
Come già detto, gli allevamenti intensivi fanno ampio uso di antibiotici. Il ricorso massiccio ai farmaci è parte del meccanismo che gli consente di essere iper-produttivi. Per intendersi, stando sempre ai dati diffusi da Terra!, in Italia, il 70% degli antibiotici venduti è destinato agli animali. Questo approccio ha ovviamente delle conseguenze sulla qualità della carne e, di riflesso, sulla salute di chi la mangia. L’abuso di antibiotici in agricoltura e zootecnica, infatti, è strettamente connesso con il fenomeno crescente dell’antibiotico-resistenza, come riconosciuto anche dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità e dall’Istituto Superiore di Sanità. “L’uso continuo degli antibiotici”, spiega l’ISS, “aumenta la pressione selettiva favorendo l’emergere, la moltiplicazione e la diffusione dei ceppi resistenti”. Detto in parole più semplici: i batteri diventano sempre più forti, gli antibiotici sempre meno capaci di contrastarli. Il problema non è banale, perché porta con sé il riacutizzarsi dell’incidenza di patologie che si credevano ormai sconfitte.
Dai batteri ai virus. L’altro collegamento che merita attenzione è quello tra allevamenti intensivi e sviluppo delle pandemie, venuto a galla prepotentemente con il dilagare del Covid-19. Nei mesi caldi del contagio, tutto il mondo ha preso confidenza con concetti che, fino a poco prima, erano appannaggio dei soli addetti ai lavori. È il caso, ad esempio, del cosiddetto “salto di specie”, che identifica il passaggio di una malattia da una specie animale all’altra (nello specifico, all’uomo). Per il coronavirus, si sono succedute nel tempo diverse ricostruzioni, che hanno identificato il punto di partenza prima nei pipistrelli, poi nel pangolino. Al netto delle ricostruzioni specifiche, ciò che rileva parlando di allevamenti intensivi è proprio la costatazione che queste strutture sono il brodo di coltura ideale per fenomeni di questo tipo, a causa dell’alta densità di capi di bestiame, soprattutto se non sottoposti a controlli adeguati. A dirlo non è un gruppo di sconclusionati complottisti ma il Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite, che parla espressamente della necessità di prevenire le prossime pandemie, ripensando in modo unitario azioni a favore della salute umana, della salute animale e della protezione dell’ambiente.
I temi ambientali e quelli della salute sono senza dubbio rilevanti. Lo scontro più acceso tra sostenitori e avversari degli allevamenti intensivi, però, si gioca sul terreno del benessere degli animali, condensato in cinque pilastri:
Il campo da gioco è piuttosto complesso, perché solleva questioni etiche profonde. Le stesse parole “allevamento intensivo” accendono nella mente di molte persone immagini di animali ammassati in spazi ristretti, polli serrati dentro enormi capannoni, illuminati dalla luce artificiale, mucche e pecore costrette in spazi vitali minimi che a stento vedono la luce del sole. C’è molte emotività in questa visione, ma anche molta realtà.
I grandi numeri movimentati dagli allevatori industriali non permettono agli animali di conservare il loro comportamento tipico, causandogli stress, sofferenza e dolore
Al netto degli allevamenti fuori legge, infatti, il problema del benessere animale si pone anche per quelli in regola. Negli anni, la legislazione italiana e quella europea in tema agricolo e zootecnico hanno fatto passi avanti ma, secondo le associazioni animaliste, non hanno intaccato il cuore della questione: i grandi numeri movimentati dagli allevatori industriali non permettono agli animali di conservare il loro comportamento tipico, causandogli stress, sofferenza e dolore.
La contestazione ecologista è radicale, travalica i limiti della singola fattoria e aggredisce la mentalità che ne è la radice: una visione proprietario dell’uomo sul mondo, un approccio estrattivo che non si preoccupa dell’esauribilità delle risorse che consuma. Ed è così che dagli allevamenti intensivi si passa a parlare, più in generale, di sviluppo sostenibile.
Alla luce di quanto detto, è possibile immaginare il completo superamento degli allevamenti intensivi? Probabilmente sì, ma a patto di accettare uno sforzo davvero notevole per rimuovere le cause stesse che hanno decretato il successo di questo sistema. Infatti, se oggi gli allevamenti industriali sono la regola, lo si deve anche al fatto che rappresentano la risposta più efficiente alla massiccia crescita del consumo di carne. La popolazione mondiale aumenta senza sosta e i paesi in via di sviluppo trasformano gradualmente le loro abitudini alimentari, incrementando il fabbisogno di proteine animali. Questo si traduce nella richiesta di più carne a prezzi contenuti. Chi può ottenere un risultato del genere? Gli allevamenti intensivi. E più questi prendono piede, più i produttori riescono ad abbassare i prezzi, stimolando ulteriormente la richiesta del mercato. È una spirale che si autoalimenta e che può essere spezzata solo diminuendo il consumo di carne.
La popolazione mondiale aumenta senza sosta e i paesi in via di sviluppo trasformano gradualmente le loro abitudini alimentari, incrementando il fabbisogno di proteine animali
A questa rivoluzione culturale, l'Associazione Terra! aggiunge tre proposte rivolte al Governo italiano e all'Europa:
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