Soldati statunitensi e soldati afghani pattugliano insieme il villaggio di Yawez, nella provincia di Wardak, Afghanistan. 17 febbraio 2010. Credits: US Army
Soldati statunitensi e soldati afghani pattugliano insieme il villaggio di Yawez, nella provincia di Wardak, Afghanistan. 17 febbraio 2010. Credits: US Army

Afghanistan, vent'anni fa la fuga dai bombardamenti Usa

Dopo la strage delle Torri Gemelle, il 7 ottobre 2001 cominciava l'offensiva dell'Occidente contro il terrorismo islamista. L'Afghanistan era un paese già stremato: "In questi anni di guerra è stato distrutto tutto", raccontava il proprietario di un mini market. E in tanti furono costretti alla fuga

Lucia Vastano

Lucia VastanoGiornalista di guerra

27 agosto 2021

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Le immagini dell'aeroporto di Kabul, dove migliaia di persone si sono dirette dopo che i talebani hanno ripreso il controllo dell'Afghanistan, sono drammatiche. Ma è una storia che si ripete. Gli afghani furono costretti alla fuga anche il 7 ottobre 2001, quando – dopo la strage delle Torri Gemelle – iniziò l'offensiva dell'Occidente contro il terrorismo islamista. Il Paese era già stremato: "In questi anni di guerra è stato distrutto tutto", raccontava il proprietario di un mini market. "In Afghanistan non è rimasto più nulla da colpire. Non acquedotti, non ponti, non industrie".

Da Narcomafie, numero 10, ottobre 2001

Qualcuno ha avuto il tempo di telefonare alle famiglie per un estremo, straziante addio. Qualcuno non si è accorto di nulla. Qualcuno non è riuscito a scappare. Molti, troppi, no. Impiegati, broker, turisti, ragazzi al primo lavoro, bambini in braccio ai genitori, camerieri, uomini e donne delle pulizie che avevano appena tirato a lucido vetrate e pavimenti che da lì a poco sarebbero andati in briciole. E poi tanti pompieri, corsi al sacrificio. Una babele di razze e di popoli erano assieme alle Torri Gemelle e hanno i loro missing da piangere: americani, italiani, cinesi, giapponesi, indiani, pakistani, russi, tedeschi e inglesi. Implacabili e precisi come missili "intelligenti", gli aerei sono piovuti dal cielo, nella pancia altri innocenti immolati alla follia umana. Ed è stata l'apocalisse. E così ora New York ha le sue cicatrici profonde e le sue macerie. Come Mostar, come Sarajevo. O come Kabul.

Il paese dei balocchi

"Credo che gli americani debbano iniziare a pensare più seriamente alla propria posizione e al proprio ruolo nel mondo. Gli Stati Uniti sono un enorme paese dei balocchi abitato da viziati che si illudono di poter continuare a giocare per sempre" Saul Bellow - premio Nobel per la letteratura

Un atto di guerra o di terrorismo, una rivolta dei poveri contro l'Occidente? E chi è il nemico, chi sono i buoni e chi i cattivi? "Il nostro nemico" ha precisato Bush, "è una rete estremista di terroristi e sono nostri nemici tutti gli Stati che li appoggiano". Ha detto una ragazza in lacrime, intervistata dalla Cnn mentre attaccava la foto della sorella scomparsa nel "muro del pianto" di Union Square: "Io non ne sapevo niente, non sapevo nulla di Afghanistan e di Bin Laden. Forse avrei dovuto informarmi. Ma tutto quello che succedeva fuori dagli Stati Uniti mi sembrava poco importante". E Saul Bellow, premio Nobel per la letteratura, ha commentato al Corriere della Sera: "Credo che gli americani debbano iniziare a pensare più seriamente alla propria posizione e al proprio ruolo nel mondo. Gli Stati Uniti sono un enorme paese dei balocchi abitato da viziati che si illudono di poter continuare a giocare per sempre. L'americano oggi vive per comprare, usare e gettare via perchè questo è l'obiettivo esistenziale fissato per lui dalla società. Ma una società non può prosperare su fondamenta del genere. Spero che il tono generale nel Paese si faccia più serio, dopo questa catastrofe, inducendo la gente a interessarsi dei problemi reali". 

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Il presidente Bush, durante la sua campagna elettorale, aveva promesso agli americani che si sarebbe occupato più dei problemi della sua America che di quelli del resto del mondo. Ora, come Kennedy durante la crisi di Cuba, ha di nuovo in pugno le sorti del mondo, un mondo che forse, ma speriamo che non sia così, comincia a conoscere solo adesso.

Nove giorni dopo la strage delle Twin Towers, ­(in un primo tem­po battezzata "Giustizia infini­ta", una vera gaffe perché così gli islamici definiscono Allah). Non una "corsa a scatto" come fu la guerra nel Golfo, ma "una maratona" che, come promette il ministro della difesa americano Donald Rumsfeld, impegnerà per un periodo lungo e imprecisabile centinaia di mezzi e di armi (senza l'esclusione pregiudiziale di quelle atomiche) e decine di migliaia di soldati. La "maratona" è partita il 7 ottobre dall'Afghanistan. Qui si è nascosto Osama Bin Laden, il principale indiziato della strage. Il Pakistan lì vicino è una polveriera. Il Pakistan dai due volti, che da cinque anni sostiene, arma e protegge il regime talebano di Kabul, ma che ora si è schierato al fianco degli Stati Uniti. E poi ancora, lì intorno, altri Stati pronti a esplodere: il Tajikistan, l'Uzbekistan. E un po' più in là la Cecenia, da sempre solidale con gli integralisti afghani. Il primo atto, scena prima, dell'operazione Libertà duratura, così è stata battezzata, si apre in quest'intricato scenario. 

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Una città rasa al suolo 

Dall'Afghanistan se ne sono dovuti andare i membri stranieri di tutte le Ong e i giornalisti della Cnn. Se n'è andato, e questo è senz'altro un segnale più significativo degli altri, anche Alberto Cairo, fisioterapista della Croce Rossa Internazionale, padre del centro ortopedico che ha "ridato" le gambe e gli arti a migliaia di afghani che le avevano perse a causa della guerra, ma anche di tutte le altre sventure che per vari motivi in Afghanistan hanno un'incidenza maggiore che altrove: incidenti sul lavoro o stradali, malformazioni congenite, malattie. Gli unici stranieri rimasti sono i volontari di Shelter Now International, l'organizzazione cristiana tedesca di cui fanno parte gli otto operatori arrestati dai talebani con l'accusa di fare proselitismo.

Già prima che cominciassero i lanci di missili e i raid aerei l'Afghanistan era un Paese isolato. A Kabul e in altre città molti abitanti erano fuggiti o avevano mandato verso i confini pakistani mogli e figli. Si dice che anche i talebani lo abbiano fatto. D'altro canto chi ha soldi e conti in banca non ha la difficoltà a essere accolto ovunque. Kabul ha assunto da anni la fisionomia di uno straziato presepe natalizio, con i pastori che spingono le capre nei recinti, bambini in groppa agli asinelli. La parte del commercio e del potere si sviluppa a 1800 metri, ai piedi delle colline da cui, per oltre vent'anni, artiglierie di vari eserciti, bande o ribelli hanno tenuto sotto tiro la città, ucciso e mutilato i suoi abitanti. Lungo i diversi fronti che si aprivano per la capitale, non c'è una casa, di quelle miracolosamente rimaste in piedi, che non rechi le cicatrici profonde di quegli scontri. Sembra impossibile che la gente abiti ancora qui, in mezzo a que­ste rovine in cui mancano luce e acqua potabile ma in compenso abbondano, nascoste tra le ma­cerie, le mine anti-uomo. I ministeri e la residenza di Mul­lah Omar, leader supremo dei talebani, sono nel centro di Ka­bul. Obiettivi strategici nel mez­zo dell'area più popolata della città, con i suoi bazaar, il suo brulicare di gente che fino a due mesi fa cercava in qualche mo­do di sopravvivere.

"In questi anni di guerra è stato distrutto tutto. In Afghanistan non è rimasto più nulla da colpire. Non acquedotti, non ponti, non industrie" ci ha detto Abdul Qadeer, che ha un mini market nella Chicken Street, un tempo, prima dell'occupazione sovietica, la via preferita da turisti e hippies occidentali. "La ricchezza del nostro paese è nella sua posizione geografica, il più facile accesso dall'Europa al Pakistan e all'India. Da qui interessi internazionali vogliono che passino gasdotti e oleodotti. La storia si ripete: nei secoli scorsi, gli afghani morivano nelle guerre per il controllo della via della seta e delle spezie, ora in quelle per il controllo del passaggio del petrolio dall'est all'ovest".

I Buddha e il massacro

Con la jeep di Halo Trust, un'organizzazione umanitaria scozzese che si occupa di liberare i campi dalle mine, nel luglio scorso avevamo guadato torrenti per raggiungere le aree da sminare, sulla linea del fronte di Bamyan, a circa 80 chilometri da Kabul, dove sono stati distrutti i Buddha scolpiti nella roccia. In questa provincia abitano gli hazara, una popolazione di religione sciita, perseguitata dai talebani, musulmani sanniti di etnia pashtun. "Mentre il mondo inorridiva per la distruzione delle statue, circa 300 hazara venivano massacrati dai talebani nel silenzio della stampa internazionale" accusa Mariam di Rawa, l'Associazione rivoluzionaria di donne afghane. 

La nostra jeep si ferma su un altopiano spazzato dal vento. Poco più a nord c'è il fronte, demarcato da colline raggiungibili solo a piedi o a cavallo di asini e muli. "Ogni monte dell'Hindu Kush ha un suo "shah", un suo re, che parla un suo dialetto, controlla e conosce ogni pietra del suo territorio. Lui e la sua gente sanno dove ci si può nascondere e da dove si può colpire. Sono questi gruppi tribali, oltre duecento, che hanno sempre decretato la sconfitta di tutti gli eserciti. Le loro rivalità hanno reso difficile il governo di questa nazione" spiega Akthar Dawan, afghano, ufficiale capo dell'Halo Trust. Mentre torniamo verso Kabul, ci insegna a riconoscere dai volti e dai vestiti l'etnia dei mercanti dei bazaar: turkmeni, uzbeki, nomadi kuci, beluci, cafiri. E poi i tagiki del mitico Ahmed Shah Massud, il ribelle nemico numero uno dei talebani, assassinato in un attentato, forse organizzato da Osama Bin Laden, due giorni prima dell'attacco alle Torri di New York.

"In questi anni di guerra è stato distrutto tutto. In Afghanistan non è rimasto più nulla da colpire. Non acquedotti, non ponti, non industrie" Abdul Qadeer - cittadino afghano 

"Per secoli il nostro paese è stato come il greto di un fiume entro il quale affluivano come torrenti i popoli e genti da tutte le parti d'Europa e dell'Asia" dice Akthar. "Gli hazara discendono dai soldati mongoli di Gengis Khan, i pashtu erano ebrei che si stabilirono nel sud dell'Afghanistan ai tempi di Babilonia. Fu un loro capo spirituale a convertirli all'Islam dopo il suo incontro con Maometto. Si chiamava Imraul Qais, ma il profeta gli diede il nome di Abdur Rashid e lo nomino "malik", re. Alcuni di noi hanno il sangue ariano, altri greco o arabo. L'Afghanistan non è un paese, è una Babele di razze". Nella jeep, Akhtar ha diversi tipi di mine disarmate. "Le mostro ai bambini per metterli in guardia. Il paese ne è pieno e ora lo sarà ancora di più".

Mine, un territorio ostile, tribù locali. È in questo scenario, torrido d'estate e gelido d'inverno, che dovranno muoversi i marines e i loro alleati per stanare Bin Laden. Intanto un milione di afghani sta cercando di scappare verso il Pakistan, dove si aggiungeranno agli altri tre milioni di profughi. Forse andranno nel campo Jalozai, vicino a Peshawar. È nato un anno fa. Ora conta oltre duecentomila rifugiati. Ci sono poche latrine, non c'è elettricità, l'acqua è distribuita da Medici senza frontiere, manca cibo. È un inferno. Ma è meglio della guerra. 

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