1 luglio 2021
Youssef (nome di fantasia) è arrivato in Italia dalla Tunisia nell'autunno 2020. A bordo di una nave quarantena è stato visitato da una dottoressa che ha notato sul suo corpo la presenza di "evidenti cicatrici chirurgiche nella parte inferiore del collo e del fianco sinistro", raccomandando ulteriori esami. Esami che non saranno fatti: Youssef riceverà un decreto di espulsione e verrà rinchiuso nel Centro per il rimpatrio (Cpr) dei migranti di Torino. Dirà più volte di essere malato e di aver bisogno di cure, ma non sarà ascoltato. Solo dopo oltre 40 giorni si scoprirà che ha un linfoma di Hodgkin, un tumore del sistema linfatico, e verrà rilasciato in strada. Habil, anche lui trattenuto nel Cpr piemontese, ha aspettato oltre 200 giorni prima di essere operato alla gamba destra, in cui i medici hanno trovato conficcati decine di piombini. Sono alcune delle storie raccolte nel libro pubblicato dall'Associazione nazionale per gli studi giuridici sull'immigrazione (Asgi) che fotografano le condizioni di vita dei migranti all'interno del Cpr di Torino, documentando storie di "ordinaria ferocia".
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È qui che si è tolto la vita Mamadou Moussa Baldé, un guineano di 23 anni arrivato in Italia nel 2016. Aveva voglia "di studiare per trovare un lavoro e vivere bene", dice in un'intervista pubblicata un paio di anni fa dal sito Sanremo news. A maggio 2021 è stato vittima di un pestaggio da parte di tre ragazzi italiani, ora indagati a piede libero. Un'aggressione che al giovane guineano, privo dei documenti in regola, ha aperto le porte del Cpr di Torino. L'hanno destinato alla zona del cosiddetto ospedaletto: un'area in cui vengono confinati alcuni trattenuti e che nulla ha a che fare con un luogo di cura. Come si vede anche dalle immagini satellitari di Google, si tratta di un basso fabbricato composto da 12 celle dove l'unico spazio esterno concesso per prendere un po' d'aria è un piccolo cortile al di fuori di ogni stanza, coperto da un'inferriata: una gabbia. Una struttura più volte finita sotto i riflettori del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale perché nessuna legge consente l'imposizione dell'isolamento all'interno dei Centri per il rimpatrio.
Da giugno 2019 a oggi si contano sei morti nei Cpr. L'ultimo caso a Torino con il suicidio di Mamadou Moussa Baldé
"Non riesco più a stare rinchiuso qui dentro: quanto manca a farmi uscire?", ha chiesto Balde al suo avvocato – Gianluca Vitale – un paio di giorni prima di annodarsi un lenzuolo intorno al collo. Ora la procura di Torino sta indagando per omicidio colposo. L'ipotesi di reato, formulata nei confronti del direttore della struttura e di uno dei medici ci lavorano dai pubblici ministeri Vincenzo Pacileo e Rossella Salvati, lascia intendere un possibile collegamento tra il gesto del ragazzo e l'eventuale assistenza non adeguata che avrebbe ricevuto all'interno della struttura. Ma la morte del giovane guineano non è un unicum. Da giugno 2019 a oggi nei Cpr si contano altri cinque morti. Un altro episodio è successo a Torino, dove – sempre nell'ospedaletto – nel luglio del 2019 ha perso la vita Hossain Faisal: un bengalese di 32 anni, ufficialmente morto per arresto cardiaco. Se ha chiesto aiuto, nessuno l'ha sentito: l'ospedaletto è lontano dall'edificio principale e privo di un efficace sistema di videosorveglianza. Storie che dimostrano il fallimento di un sistema che causa sofferenze, è inefficiente e costoso.
La creazione dei Cpr risale al 1998, quando il Testo unico sull'immigrazione voluto da Livia Turco e Giorgio Napolitano ha introdotto il trattenimento delle persone in attesa di espulsione. Il tempo massimo di permanenza era fissato a 30 giorni: periodo poi raddoppiato con la Bossi-Fini. Il primo decreto sicurezza a firma di Matteo Salvini ha alzato il limite a sei mesi, ridotti poi a 90 giorni dall'attuale ministra dell'Interno Luciana Lamorgese.
Nati come Centri di permanenza temporanea e assistenza, i Cpr hanno assunto il nome attuale con la legge Minniti-Orlando del 2017 che prevedeva di ampliarne l'utilizzo e aprirne uno in ogni regione. I Cpr si sono così configurati come l'ultimo anello di una politica migratoria che punta a una esternalizzazione dei confini attraverso accordi con i Paesi d'origine e transito dei migranti, negando il diritto alla mobilità. Di fatto possiamo considerarli delle carceri che sovvertono il rapporto tra regola ed eccezione: la libertà personale, ordinariamente inviolabile, cede alla pretesa statale di segregare ed escludere dalla vita della comunità. E questo non per via di un’accusa o una condanna penale, ma solo sulla base di una violazione amministrativa: l’ingresso irregolare in Italia o il soggiorno in assenza di un permesso. Una profonda ingiustizia che viene avvertita da chi subisce questa forma di detenzione.
Nei Cpr la libertà personale cede alla pretesa statale di segregare i migranti. Il tutto sulla base di una violazione amministrativa
I diritti calpestati dei migranti
La gestione dei Centri viene affidata dalle prefetture ai privati, tramite bando. A decidere il trattenimento è la questura, mentre la convalida (che deve avvenire entro le 96 ore successive) spetta al giudice di pace. Gli stranieri trattenuti nei Cpr sono quindi le uniche persone sulla cui libertà decide in prima battuta la magistratura onoraria e poi un giudice a cui il legislatore non ha attribuito il potere di disporre pene detentive. I giudici di pace, nella maggior parte dei casi, convalidano il provvedimento dopo udienze molto brevi e senza adeguate indagini. Una ricerca condotta da Lexilium, l’Osservatorio sulla giurisprudenza dei giudici di pace in materia di trattenimento e allontanamento, mostra che il 60 per cento delle 947 udienze di convalida e proroga analizzate non supera i cinque minuti di durata, comprensivi della stesura del provvedimento del giudice. Così alla polizia viene di fatto delegato il ruolo di assoluta protagonista.
Lo testimonia anche la storia di Abdo, un ragazzo del Sudan, a cui nei pochi secondi in cui siede di fronte al giudice viene rivolta una sola domanda: "Conferma le generalità?". Poi nessuno gli chiede più nulla. Eppure, è scritto ovunque nei documenti che viene dal Sudan: la regione del genocidio, dei quasi tre milioni di profughi, la terra dei massacri da parte delle milizie e della pulizia etnica. Il rimpatrio di chiunque provenga da quest'area dovrebbe violare una mezza dozzina di divieti imposti dalla normativa nazionale e sovranazionale. Il condizionale è necessario: meno di un anno prima altri 40 cittadini sudanesi erano stati reclusi nel Cpr di Torino e rimpatriati grazie a un memorandum di intesa tra le forze di polizia italiana e sudanese: l'ennesimo accordo operativo – cioè non portato in Parlamento per la ratifica e di regola neanche reso pubblico – che le autorità italiane hanno sottoscritto con forze di polizia di regimi antidemocratici o apertamente liberticidi, in questo caso con un dittatore ricercato dalla Corte penale internazionale. Anche Abdo va rimpatriato: le ragioni della sua fuga non interessano nemmeno al suo difensore. Per convalidare il trattenimento bastano una domanda e un minuto: dalle 11.37 alle 11.38.
L'obiettivo ufficiale dei Cpr è fare in modo che lo straniero venga identificato e rimpatriato. Un'attività difficile perché vincolata alla collaborazione dei Paesi di origine, con cui i rapporti politici dell'Italia possono cambiare nel tempo. L'analisi dei numeri, e la voce di molti immigrati, forniscono una lettura univoca: senza la volontà dello straniero il rimpatrio è occasionale. Il risultato è un sistema inefficiente. Analizzando i dati si nota che la quota di migranti transitati nei Centri e poi rimpatriati è stabile: il 50 per cento. Nel 2018, su 4.092 persone trattenute ne sono tornate in patria 1.768. Nel 2019, sono state 2.992 su 6.172. Nel 2020 (anno della pandemia), 2232 su 4387. Non solo. La percentuale di rimpatri non varia in funzione del tempo massimo di permanenza all'interno delle strutture stabilito dai vari governi. La metà dei migranti riottiene la libertà dopo un periodo di sofferenze terribili e inutili.
Il trattenimento amministrativo è un atto di apartheid
Emerge così, in controluce, l’autentica natura del Cpr: prima che anticamera dei rimpatri, il centro è un luogo destinato all’isolamento e all’esclusione degli stranieri attraverso un processo di selezione sociale. Il trattenimento amministrativo è il frutto di un rito di separazione su base etnica: un atto di apartheid.
I Cpr sono magneti di dolore e abbandono in cui convivono sotto lo stesso tetto richiedenti asilo, vittime di tratta, persone con disabilità fisiche e intellettive, potenziali minori, tossicodipendenti e soggetti considerati socialmente pericolosi, accusati di proselitismo o terrorismo, anche con precedenti penali di notevole spessore. A risentirne è molto spesso la salute dei trattenuti, affidata in diversi casi a chi gestisce i Cpr e non al Servizio sanitario nazionale. La presenza di molti tossicodipendenti e malati psichici richiederebbe un forte coinvolgimento dei servizi sanitari locali. Un coinvolgimento che al momento non c'è. Al servizio sanitario nazionale spetta solo valutare le condizioni di salute del migrante prima dell'ingresso nel centro. Ma nella pratica spesso il certificato di idoneità alla vita all'interno della struttura viene rilasciato dal medico dell'ente gestore: una prassi che non è solo contraria al regolamento ministeriale che disciplina i Cpr, ma che toglie al cittadino straniero la garanzia di essere valutato da un soggetto imparziale.
Non va meglio sul fronte delle strutture, come emerge dall'ultimo rapporto del Garante che parla di edifici inadeguati e di condizioni igieniche carenti: mancano spazi, luce, riscaldamento, mobili. Molti bagni sono fuori uso e le finestre rotte. I trattenuti dormono su materassi usurati, hanno poca biancheria e pochi vestiti. Ma più di tutto pesa la noia: una noia assoluta dovuta alla mancanza di qualsiasi opportunità lavorativa o formativa, che trasforma la quotidianità in un ripetersi di giornate senza fine. Non a caso nei 20 anni di storia italiana dei Cpr tutti gli studi hanno documentato la diffusione tra i trattenuti dell'uso di sostanze a scopo lenitivo, soprattutto ansiolitici, e senza un adeguato monitoraggio delle autorità. "Devo per forza prendere la terapia perché altrimenti il tempo non passa mai", "ma certo che devo prendere gli psicofarmaci sia per riuscire a dormire sia per stare tranquillo. Quasi tutti qui li prendono": sono alcune delle testimonianze dei trattenuti raccolte nella ricerca Betwixt and Between – Turin’s Cie, pubblicata dalla Human rights and migration law clinic di Torino.
I trattenuti non hanno vestiti, dormono su materassi vecchi e senza lenzuola. Ma più di tutto pesa la noia
Ecco perché gli episodi di autolesionismo sono molto frequenti: labbra cucite, metalli ingoiati, digiuni, tagli alle braccia. La ricerca della libertà passa dalle aule di giustizia alla superficie dei corpi. La situazione si è aggravata con la riduzione dei servizi e delle risorse imposta dal nuovo schema di capitolato di appalto ministeriale (un documento tecnico che serve a definire le regole del rapporto tra committente e appaltatore). Il personale presente nelle strutture è insufficiente: il capitolato prevede al giorno un solo infermiere e un medico per sei ore. Ventiquattr'ore alla settimana per assistente sociale e psicologo, 48 ore di mediazione linguistica, 16 per l'informazione normativa, quattro operatori diurni e due notturni. Il tutto per un numero di trattenuti da 151 a 300.
Alle disumane condizioni di vita, si aggiunge la difficoltà di controllare quanto avviene all'interno dei Centri da parte della società civile. Un limite che si manifesta a partire dalla mancanza di informazioni pubbliche disponibili su quanti siano i Cpr in funzione al momento. L'ultimo elenco sul sito del ministero dell'Interno ne conta dieci, ma quelli aperti sembrano essere nove collocati in altrettante città: Gradisca d'Isonzo (Gorizia), Milano, Torino, Roma, Palazzo San Gervasio (Potenza), Bari, Brindisi, Caltanissetta e Macomer (Nuoro). Mentre le persone presenti, al 30 aprile 2021, erano 229.
Significativo è anche il fatto che quasi tutti i Centri abbiano disposto il sequestro degli smartphone, soprattutto dopo che i cittadini stranieri hanno cominciato a inviare video e foto all'esterno per denunciare le condizioni di vita nelle strutture. L'intento di impedire la documentazione è evidente se si pensa che, in alcuni casi, gli unici dispositivi ammessi sono quelli senza una fotocamera che funzioni: all'ingresso viene consegnato un cacciavite con cui lo straniero viene costretto a metterla fuori uso.
Un altro buco nero sono i costi. Anche in questo caso non ci sono dati ufficiali, ma è possibile fare una stima. Nei Centri per il rimpatrio con capacità inferiore ai 150 posti il costo medio giornaliero per ogni trattenuto il costo medio è di 32,15 euro, nei centri con più di 150 posti è di 24,65 euro. Un mese di trattenimento costa allo Stato circa mille euro a persona, a cui vanno aggiunti i costi delle ristrutturazioni necessarie a ogni rivolta dei trattenuti, e le spese per i rimpatri (ammesso che avvengano).
La detenzione degli stranieri non è un dato naturale e fisiologico, ma storico e politico. Esattamente come il diritto che la prevede e che, in qualunque momento, può stabilirne la fine. Non è facile immaginarlo perché bisogna cancellare un ventennio di giurisprudenza, amministrazione e politiche della segregazione. In realtà le misure alternative alla detenzione esistono già. Alcune hanno l'obiettivo di garantire che lo straniero non si sottragga: la consegna del passaporto, l'obbligo di presentazione periodica in un ufficio della forza pubblica, l'obbligo di dimora in un luogo conosciuto alle autorità.
Altre sono ancora meno invasive della libertà delle persone. Una è persino pronta all'uso. La disciplina dell'allontanamento dei cittadini dell'Unione europea e dei loro familiari non prevede le detenzione. La regola è la partenza volontaria della persona a cui, di regola, è concesso almeno un mese per l'organizzazione del viaggio. La restrizione fisica è prevista solo in casi limite, quando la permanenza sul territorio è "incompatibile con la civile e sicura convivenza" e solo per un massimo di 96 ore. Se il rimpatrio non può essere fatto entro questo termine, lo straniero deve essere rimesso in libertà. La volontà di esclusione di una parte della società è, quindi, una volontà politica e ipoteca il futuro di tutti: quale convivenza è possibile dopo il Centro? Le vittime potranno mai perdonare l'offesa? Quale comunità può nascere dall'incontro forzato di due rifiuti: chi non vuole restare, chi non vuole accogliere? Quella dei Cpr è una vicenda costellata di perché che attendono risposta, invano.
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