
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
31 marzo 2022
Sono un giornalista investigativa messicana. Lavoro nel giornalismo da 29 anni e per dodici anni ho subito agguati, due mie fonti sono state assassinate, la mia famiglia è stata intimidita e davanti casa mia sono stati lasciati animali decapitati. Sono stati i funzionari del governo e non i narcos che hanno ordinato la mia morte. Nel 2010 avevo rivelato che funzionari pubblici ai massimi livelli del governo del presidente Felipe Calderón, che avrebbe dovuto contrastare il narcotraffico, erano invece al servizio del potente cartello di Sinaloa. Il mio caso è solo un esempio della terribile situazione in cui vivono centinaia di giornalisti in Messico. Almeno io sono ancora viva, molti colleghi no.
Talvolta chi deve fare giustizia è cooptato dai potenti e così sono i reporter a svelare corruzione, abusi, violazioni dei diritti umani e segreti dei cartelli
Durante il governo del presidente Enrique Peña Nieto, gli atti intimidatori contro di me sono continuati perché molti dei funzionari al servizio del cartello hanno continuato a ricoprire posizioni chiave e perché ho continuato a svolgere indagini sugli abusi delle autorità e sulle complicità col crimine. Nel 2016, attraverso il Meccanismo per la protezione dei difensori dei diritti umani e dei giornalisti, il governo ha inviato a casa mia un pesante giubbotto antiproiettile. Per me quell'oggetto era più un avvertimento che una protezione.
Da allora sono successe molte cose. Ho dovuto lasciare il mio paese per proteggere la mia famiglia, ma continuo a tornare in Messico per continuare le mie indagini sulla criminalità organizzata, sulla sua costante evoluzione e sulle sue connessioni con il potere politico ed economico. Mi hanno costretto ad andarmene, ma non fermeranno il mio lavoro. Durante i dodici anni in cui ho vissuto sotto minaccia, più di 150 giornalisti e comunicatori sono stati uccisi per il loro lavoro. Ben otto tra gennaio e marzo 2022: José Luis Gamboa Arenas, direttore di Inforegio, a Veracruz; il fotoreporter Margarito Martínez e la giornalista Lourdes Maldonado, a Tijuana; Heber López a Oaxaca; Roberto Toledo, creatore di contenuti, è stato ucciso a Michoacán e Jorge Luis Camero Zazueta, editore del portale El Informativo, è stato assassinato a Sonora. Il 4 marzo è stato ucciso a Zacatecas Juan Carlos Muñiz e il 15 marzo Armando Linares López. Nei tre anni di amministrazione del presidente Andrés Manuel López Obrador, 55 giornalisti e comunicatori sono stati assassinati secondo dati ufficiali del suo governo. La macabra cifra batte un record nella violenza degli ultimi 20 anni.
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