'Ndrangheta: 700 anni di carcere al maxiprocesso Aemilia

La sentenza della Cassazione arriva sette anni dopo l'avvio della più grande operazione contro la criminalità organizzata in Emilia Romagna: al centro dell'inchiesta il clan dei Grande Aracri, che partendo da Cutro, in provincia di Crotone, si è radicato in tutto il Nord Italia

Sofia Nardacchione

Sofia NardacchioneGiornalista freelance

9 maggio 2022

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Circa 700 anni di reclusione, 36 ricorsi rigettati, 39 dichiarati inammissibili, 31 condanne per associazione mafiosa. Si è concluso così, con la sentenza della Corte di Cassazione pronunciata il 7 maggio, Aemilia, il maxiprocesso alla ‘ndrangheta emiliana. L’epilogo arriva sette anni dopo l’avvio della più grande operazione contro la criminalità organizzata nella regione e, in particolare, contro il clan dei Grande Aracri, che da Cutro – città calabrese in provincia di Crotone – si è radicato in Emilia-Romagna e in tutto il Nord Italia. Su un totale di 87 imputati, per 75 è stata confermata la condanna. Solo per 13 posizioni sono stati disposti annullamenti con lievi ricalcoli di pene o rinvii relativi a pochi capi d'accusa: tra questi c'è Michele Bolognino, condannato a 20 anni e 10 mesi – rispetto ai 21 anni e 3 mesi del secondo grado – l’unico dei principali boss dell’associazione mafiosa a non avere scelto il rito abbreviato. Per la ‘ndrina emiliana controllava i territori di Parma e Reggio Emilia, continuando a lavorare per l’organizzazione anche dopo l’arresto avvenuto nel 2015.

Tra gli altri condannati figurano i fratelli Palmo e Giuseppe Vertinelli, per i quali sono state confermate le pena di 17 anni e 4 mesi e 16 anni e 4 mesi. Da imprenditori, secondo l’accusa, si sono messi a completa disposizione della cosca, agevolando in particolare l’espansione del sodalizio nell’economia emiliana, tra intestazioni fittizie di società e immobili, false fatturazioni e riciclaggio. E ancora, Gaetano Blasco, tra gli organizzatori del clan, condannato a 21 anni e 11 mesi; Giuseppe Iaquinta, padre dell’ex calciatore Vincenzo, condannato a 13 anni per associazione mafiosa; l’imprenditore modenese Augusto Bianchini, che ha permesso alla ‘ndrangheta di radicarsi in profondità sul territorio, condannato a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Un epilogo tragico il suo: dopo la conferma della condanna, ha tentato di togliersi la vita tagliandosi le vene ed è ora ricoverato in gravi condizioni in ospedale.

L’inizio

Le condanne più alte a Gaetano Blasco (21 anni e 11 mesi) e Michele Bolognino (20 anni e 10 mesi), l’unico tra i boss a non avere scelto il rito abbreviato

Il 28 gennaio 2015 è la data che segna l’inizio di Aemilia e di quello destinato a diventare il più grande processo contro le mafie nel Nord Italia. All’alba sono arrestate 117 persone in tutta l’Emilia-Romagna, soprattutto nei comuni di provincia del reggiano e del modenese, svegliati da sirene, volanti ed elicotteri. Arresti sono eseguiti anche in Calabria e in Lombardia, le altre due regioni coinvolte con altrettante operazioni congiunte: Kyterion e Pesci. Operazioni contro la ‘ndrangheta e, in particolare, contro il clan dei Grande Aracri, da decenni radicato in Emilia-Romagna e capace di espandersi in tutto il Nord Italia. Una storia che risale all’inizio degli anni Ottanta e che oggi presenta un’associazione mafiosa moderna, guidata dal 2004 da Nicolino Grande Aracri. Intorno, un territorio che in molti casi ha aperto le porte alla ‘ndrangheta, ci ha fatto affari, ha guadagnato.

Dopo i maxiprocessi Infinito in Lombardia e Minotauro in Piemonte, anche l’Emilia-Romagna non può più negare il radicamento delle mafie. Quella del 28 gennaio 2015 diventa così una data storica per la regione e per tutti coloro che fino a quel momento, per convenienza o sottovalutazione, avevano messo da parte il problema mafie. A raccontare il clima è Enza Rando, vicepresidente e responsabile dell’ufficio legale di Libera, che si è costituita parte civile nel processo: “Ci sono quelli che non hanno voluto vedere e che si sono svegliati e quelli che invece hanno fatto affari e hanno cominciato a tremare. Dall’altro lato lato, c’è chi ha riconosciuto che era vero quello che dicevamo da tempo, cioè che anche in Emilia le mafie sono radicate”.

Le dimensioni dell’operazione Aemilia risultano più evidenti con l’inizio del processo, nell’autunno del 2015: in regione non c’è un’aula di tribunale adatta a celebrare le udienze preliminari, che coinvolgono inizialmente 239 imputati. Le sedute – che porteranno a 147 rinvii a giudizio con rito ordinario e 71 con rito abbreviato, 19 patteggiamenti e 2 proscioglimenti – si svolgono in un padiglione della Fiera di Bologna, dove è realizzata un’aula bunker temporanea, abbastanza grande per ospitare centinaia tra imputati e avvocati, con metal detector all’ingresso, celle per gli imputati con misure cautelari in carcere, sistemi di videosorveglianza e videoconferenza. Lo stesso accadrà a Reggio Emilia, dove, nell’autunno dello stesso anno, si celebrerà il rito ordinario del maxiprocesso, all’interno di un’aula costruita nel cortile del Tribunale. Con una differenza: all’aula hanno accesso anche giornalisti e cittadinanza: studenti (più di tremila nel corso degli anni), amministratori e gente comune.

Zona grigia, dove si incontrano mafie, affari e politica

Dagli anni Ottanta a oggi

Per capire Aemilia e il radicamento della ‘ndrangheta emiliana bisogna andare indietro nel tempo di qualche decennio, agli anni Ottanta. Nel 1982 Antonio Dragone, capo del locale di Cutro, viene mandato in soggiorno obbligato a Quattro Castella, comune di poco più di 10mila abitanti alle propaggini dell’Appennino reggiano. In provincia di Reggio Emilia arrivano non solo i familiari del boss, ma anche gli ‘ndranghetisti più fedeli. Al centro degli affari sul territorio ci sono il traffico di droga, che si estende anche al territorio di Modena, le estorsioni e il controllo degli appalti edili. 

Quello di Reggio Emilia era già da tempo un territorio fertile per personaggi criminali e mafiosi, come spiega Vittorio Mete, professore associato dell’Università di Firenze: “Negli anni Sessanta e Settanta in quel territorio vi è una grande espansione edilizia: un settore in cui sono impiegati prima gli immigrati cutresi e successivamente si fanno spazio anche alcuni gruppi criminali. C’è poi il settore della droga, il cui commercio è il motivo per il quale alcune persone, prima di Dragone, si spostano da Sud a Nord. Dragone è mandato a Reggio Emilia perché ci sono già delle presenze criminali, non è il contrario. Probabilmente per gli apparati dello Stato era più comodo inviarlo su questo territorio: essendoci delle persone che lo possono ospitare, lo Stato non deve fornirgli un alloggio o altre risorse. In merito alla vicenda, il capitano dei carabinieri di Crotone di allora ha affermato: “L’abbiamo tolto da Cutro e l’abbiamo mandato in un’altra Cutro”.


Appena un anno dopo, però, Antonio Dragone viene arrestato e al suo posto subentra il nipote Raffaele. Dopo aver ampliato il traffico di sostanze stupefacenti, anche Raffaele Dragone viene arrestato, insieme al direttore di una banca modenese con cui aveva messo in piedi un traffico di eroina sul territorio. Già allora si inizia a intravedere quella che poi sarà la caratteristica fondamentale per il radicamento del clan: la collaborazione con professionisti, politici e imprenditori compiacenti. Un passaggio che arriverà a concretizzarsi con la reggenza di Nicolino Grande Aracri, diventato boss della ‘ndrangheta emiliana dopo una faida interna combattuta tra Calabria ed Emilia-Romagna e in cui vengono uccisi, nel 1999 e nel 2004, Raffaele e Antonio Dragone. In mezzo, altri omicidi come quelli di Nicola Vasapollo e Giuseppe Ruggiero, uccisi nell’autunno del 1992 in provincia di Reggio Emilia e sui quali, soltanto adesso, si sta facendo luce in uno dei tanti filoni processuali nati da Aemilia. 

Gli affari della criminalità

I clan si sono radicati nel territorio grazie alla collaborazione di professionisti, politici e imprenditori compiacenti

A raccontare gli affari principali del clan finito al centro del processo Aemilia sono gli stessi capi di imputazione. Ci sono i reati tipici – associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsioni, usure, furti, incendi, commercio di sostanze stupefacenti – e altri più inquietanti, che riguardano il radicamento nell’economia emiliano-romagnola. Nell’ordinanza dell’operazione si legge che lo scopo dell’associazione era quello di “acquisire direttamente e indirettamente la gestione e/o controllo di attività economiche, in particolare nel settore edilizio, movimento terra, smaltimento rifiuti, ristorazione, gestione cave, nei lavori seguenti il sisma in Emilia del 2012; acquisire appalti pubblici e privati”. Reati che sono il segno di una ‘ndrangheta profondamente diversa da quella del territorio di origine: una mafia “autonoma e radicata”, come l’hanno definita i giudici che in primo e secondo grado hanno riconosciuto come mafiosa l’associazione capeggiata da Nicolino Grande Aracri.

In un territorio come quello emiliano-romagnolo non ci sono più riti, affiliazioni e rituali tradizionali, ma nuove modalità che, più che al controllo del territorio, puntano al massimo profitto. Una mafia silente, che non smette di intimidire, che sfrutta il territorio e chi lo vive, che approfitta delle crisi – come quella successiva al terremoto del 2012 – per infiltrarsi e radicarsi sempre più in profondità, attraverso modalità che non sempre sono estranee al luogo di radicamento, come spiega Vittorio Mete: “In Emilia i criminali cutresi hanno appreso le truffe dagli autoctoni. Siamo di fronte a un territorio in cui ci sono pratiche consolidate precedentemente, nelle quali anche i criminali mafiosi trovano il loro spazio. Non c’è, quindi, una società sana che a un certo punto è infettata dai gruppi criminali, così come non c’è la capacità dei gruppi criminali di corrompere una società che è completamente sana. In tutte le società convivono elementi illegali con pratiche di solidarietà e di cooperazione”. 


Anche in Emilia-Romagna, alla base degli affari mafiosi, ci sono meccanismi sempre più raffinati: la creazione di un consorzio di imprese che lavorano nel settore dell’edilizia e a quelli collegati, che porta a profitti enormi. Soldi che alimentano quella che i giudici hanno definito una “vorticosa emissione di fatture false”, circondata da una serie di professionisti, imprenditori e politici collusi: “In questo processo – spiega Enza Rando – ci sono le due facce della società, i giornalisti che si oppongono e sono minacciati e i giornalisti che sono conniventi e fanno affari con la ‘ndrangheta, politici che si sono opposti e altri che, più che conniventi, sono stati assenti, indifferenti o complici a livello culturale”. 

Nel processo sono state condannate numerose persone che fanno parte della cosiddetta “zona grigia” della ‘ndrangheta emiliana. Fra queste, la commercialista bolognese Roberta Tattini, che si è messa a disposizione dell’associazione mafiosa tenendo in piedi l’importante meccanismo di intestazioni fittizie, necessarie per proteggersi da eventuali operazioni di polizia e confische. Il giornalista reggiano Marco Gibertini, che ha dato voce alle ragioni della ‘ndrangheta emiliana, mettendola in contatto con il mondo imprenditoriale e politico reggiano. L’imprenditore modenese Augusto Bianchini che ha “prestato” la sua azienda per riuscire a lavorare e guadagnare evitando i controlli. E ancora, amministratori che hanno chiuso un occhio permettendo al gruppo criminale di evitare interdittive ed esclusioni dagli appalti, e politici che hanno fatto pressioni per favorire le imprese legate alla ‘ndrangheta.

Il processo Grimilde rivela come le mafie sfruttino i fondi Ue

Aemilia e i suoi filoni

Da quel 28 gennaio 2015 sono arrivate sentenze, migliaia di anni di condanne per centinaia di imputati. Ma non solo. Nell’aprile del 2016 è stato sciolto per infiltrazioni mafiose il comune di Brescello, primo e al momento unico caso in regione. Come scritto nella relazione di scioglimento, nel comune c’era una “scarsa attenzione” e “insensibilità” verso “la problematica della criminalità organizzata largamente diffusa nel contesto locale” e legata in particolare alla presenza della famiglia di Francesco Grande Aracri, fratello del boss Nicolino, coinvolto successivamente in numerosi processi. Per quanto riguarda Aemilia, oltre al rito ordinario nel 2018, è stata emessa la sentenza del rito abbreviato che ha riconosciuto lo stesso impianto accusatorio, portando alla condanna della maggior parte dei principali imputati.

Anno dopo anno, grazie anche alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, si sono aperti nuovi filoni processuali. Aemilia bis, iniziato nel 2016 con 23 imputati accusati, tra gli altri reati, di false fatturazioni; Aemilia 1992, che sta facendo luce sui due omicidi di ‘ndrangheta avvenuti in provincia di Reggio Emilia trent’anni fa e che, a ottobre 2021, ha portato alla condanna all’ergastolo di quattro ‘ndranghetisti, tra cui Nicolino Grande Aracri. Traditori dello Stato o, meglio, White list, che vede a processo 12 persone accusate, a vario titolo, di minacce a corpo amministrativo dello Stato e rivelazione di segreti d’ufficio per aver tentato di eliminare l’interdittiva antimafia all’imprenditore Augusto Bianchini. Tra queste figura anche l’ex senatore Carlo Giovanardi, sulla cui immunità deciderà la Corte costituzionale. Il 28 aprile sono stati condannati in primo grado solo per rivelazione e uso di segreti d’ufficio l’ex vice prefetto di Modena Mario Ventura, il funzionario dell’Agenzia delle Dogane Giuseppe Mario De Stavola, Augusto Bianchini e il figlio Alessandro, ma sul processo pende la prescrizione. 


Il processo Grimilde, che sta facendo luce sui reati di natura economica legati all’infiltrazione mafiosa nel tessuto imprenditoriale della regione, tra investimenti, società di comodo, truffe carosello, ma anche sfruttamento, minacce, truffe ai finanziamenti europei. Un processo in cui è stato condannato anche l’ex presidente del consiglio comunale di Piacenza, Giuseppe Caruso, agli ordini della cosca quando era dipendente dell'agenzia delle Dogane. Perseverance, che delinea i nuovi assetti del clan dopo gli arresti, tra estorsioni, false fatture per un totale di 13 milioni di euro, riciclaggio, intestazioni fittizie per cercare di salvare i beni dell’associazione, che sempre più teneva un profilo basso e cercava di aumentare il proprio consenso sociale. E poi, ancora, Reticolo, Octopus, Billions

“I processi successivi – osserva Enza Rando – raccontano il post Aemilia e il coinvolgimento di una parte della politica. Perseverance e Grimilde hanno attestato un affinamento dei reati economici, che incidono sulla nostra democrazia, sui nostri servizi, sui principi del libero mercato, violando i diritti dei lavoratori e di tutti. Non solo, quelli nati dopo Aemilia sono processi che ci hanno fatto capire come si stanno modificando le mafie e con che velocità vanno avanti”. Processi che raccontano una ‘ndrangheta che, dopo l’operazione Aemilia, si è trasformata, ha trovato nuove leve, nuove modalità di infiltrazione. “Siamo solo all’inizio”, aveva detto l’allora procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Antonio Valerio, ‘ndranghetista e oggi collaboratore di giustizia, in aula aveva affermato: “Non illudetevi che sia finita. La ‘ndrangheta è come la gramigna, finché non la estirpi fino all’ultimo filamento di radice in profondità, cresce nuovamente”. Profezie che si avverano, visibili in aule di tribunale in cui, sette anni dopo, è ormai la prassi celebrare processi di mafia. Visibili nei continui arresti e nei nuovi processi, nei troppi nomi di procedimenti spesso difficili da ricordare. In una nuova normalità. 

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