Enza Rando, avvocato e vicepresidente di Libera
Enza Rando, avvocato e vicepresidente di Libera

Crescere sulle spalle dei giganti nella Palermo dominata da Cosa nostra

Chi ha vissuto da vicino quel momento storico a Palermo ha speso il resto dei suoi giorni nella ricerca di risposte e soluzioni per tentare di costruire una terra più libera dalla mafia

Enza Rando

Enza RandoAvvocato, vicepresidente di Libera

17 maggio 2022

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Ognuno di noi è segnato dalle persone che incontra, dal coinvolgimento che hanno saputo seminare, dai dubbi che hanno saputo sollevare e dalle risposte che ci insegnano a cercare. Siamo e diventiamo le vite che incontriamo. Mi sono sempre posta tante domande sulla presenza della mafia in Sicilia, ma nella Palermo degli anni Ottanta e Novanta ricevevo poche risposte, anzi quasi nessuna. Mi domandavo perché la criminalità uccidesse e nessuno cercava di capire. Perché la maggioranza delle persone diceva che la mafia non esisteva? Perché aveva paura di parlarne?

All’epoca ero una studentessa universitaria di Palermo, una città meravigliosa e un arcobaleno di culture, dove però si uccidevano donne, uomini e bambini. Erano stati ammazzati sindacalisti, magistrati, giornalisti, imprenditori, politici, cittadini, ma nessuno sembrava interrogarsi sul significato di quegli omicidi. Il 30 aprile del 1982 la mafia aveva ucciso Pio La Torre e Rosario Di Salvo e il 3 settembre 1982 il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo, ma la riflessione sul fenomeno mafioso continuava a rimanere ai margini dell’agenda politica del Paese.

Pio La Torre, un vero "scassaminchia"

Andare controcorrente

Ho scelto di rimanere in Sicilia per fare l’avvocato e dedicarmi a chi aveva poca voce: le parti offese, i familiari delle vittime della mafiaEnza Rando

In quegli anni a Palermo si udivano voci solitarie di pochi intellettuali, di qualche associazione. Voci che dovevano rimanere isolate. Ho sempre pensato che quel silenzio aveva un significato e che era giusto capire quanto stava succedendo in Sicilia e in Italia. Individuai in quegli anni, in cui ero una studentessa universitaria, il Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, un luogo di ricerca dove potevo trovare libri, riviste e forse qualche risposta ai miei tanti dubbi. Decisi di scrivere una tesi di laurea che non suscitò molto entusiasmo, dal titolo Legislazione antimafia e tutela dell’occupazione. Volevo dimostrare che la mafia toglieva lavoro e uccideva la buona e legale occupazione, in uno scenario nel quale tutti raccontavano invece che offriva lavoro e quindi, in un certo senso, che la criminalità andava tollerata.

In questo mio cammino ebbi l’occasione di incontrare Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Rocco Chinnici. Ascoltandoli, capii che non c’era una reale e diffusa intenzione di combattere la mafia. Mi domandavo come mai quei magistrati, anziché essere ascoltati e valorizzati, fossero criticati e contestati dal potere non solo criminale. Dopo la laurea decisi di tornare nella mia città di nascita, Niscemi. Lì Cosa Nostra e la Stidda si uccidevano per strada e nelle piazze per la gestione del mercato della droga, delle armi, delle estorsioni e per condizionare il consenso politico elettorale.

Ho scelto di rimanere in Sicilia per fare l’avvocato e dedicarmi a chi aveva poca voce: le parti offese, i familiari delle vittime della mafia. Insieme potevamo cercare la verità. In quegli anni all’Ucciardone di Palermo fu costruita l’aula bunker e prese avvio il maxiprocesso. Nel frattempo, entrò in vigore la legge sui collaboratori di giustizia, altra intuizione di Falcone, che aveva compreso che per combattere la mafia bisognava anzitutto conoscerla da dentro.

Due punti di riferimento

Il 23 maggio 1992, alle 17.58, avvenne la strage di Capaci. Appresi la notizia dai telegiornali, una visione devastante, toglieva il respiro. Consideravo Falcone un faro, una certezza nelle battaglie che anch’io nel mio piccolo stavo conducendo. Mi sentii più sola. Con lui non avevo mai parlato, ma tante volte lo avevo ascoltato e ogni volta mi aveva fatto sentire parte di una schiera di persone che poteva contribuire a cambiare il mondo. Grazie a lui avevo imparato ad avere fiducia nelle istituzioni e a sperare in una terra senza mafie. Il “mio giudice” non c’era più, era stato ucciso insieme a sua moglie Francesca Morvillo e ai giovani agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. La mafia li aveva ammazzati per dare un segnale. Falcone fu lasciato da solo, ma dopo la strage tutti parlavano di lui come un eroe. Sembrava che tutti avessero la necessità di dire parole, che però erano vuote e prive di senso, spesso pronunciate da chi avrebbe dovuto tacere.

Falcone e Borsellino chiesero aiuto, ma nessuno li ascoltò

Tanto è cambiato, ma tanto ancora dobbiamo fare affinché l’opinione pubblica percepisca l’immutata pericolosità delle mafie, nemiche della democrazia e dello sviluppo economico e sociale della nostra comunità

Il 25 giugno 1992 la rivista Micromega organizzò presso la biblioteca comunale di Palermo un dibattito al quale partecipò anche Paolo Borsellino. Era una persona perbene e un amico di Falcone. Le sue parole comunicavano serenità, rigore, umanità e grande senso delle istituzioni. Arrivai presto, avrei voluto abbracciarlo e fargli tante domande, ma non fu possibile. Ricordo che era molto triste. Le sue parole furono profonde, lente, appuntai tutto sul mio quaderno. Disse, parlando della strage di Capaci, che una parte della sua ma anche della nostra vita era finita quel giorno. Raccontò della solitudine di Falcone, delle invidie nutrite nei confronti di un professionista visionario. Ci disse che lui era un testimone e che avrebbe riferito all’autorità giudiziaria. Il 19 luglio 1992, alle 16,58 avvenne la strage di via D’Amelio. Uccisero anche Borsellino e la sua scorta. 

Non è finita. Arrivò a Palermo un altro magistrato straordinario e generoso, Gian Carlo Caselli. Con lui tornò in tanti di noi, nuovamente, la speranza. Nel 1995 si tenne in città una grande manifestazione. Fu in quell’occasione che incontrai per la prima volta di persona Luigi Ciotti e la nostra associazione, Libera. Mi avvolse con il suo entusiasmo e la sua capacità di visione. Dovevamo organizzarci per costruire insieme una democrazia compiuta. Da quel momento iniziò un altro cammino. In quegli anni raccogliemmo le firme per quella che poi, nel 1996, diventò la legge sul riuso sociale dei beni confiscati.

Da allora sono passati trent’anni e oggi, forse ancora di più rispetto al passato, sento  necessario uno sguardo attento, capace di riconoscere in anticipo la metamorfosi veloce delle mafie. Non possiamo nasconderci dietro alla convinzione che le mafie non uccidano e quindi non esistano più. Tanto è cambiato, ma tanto ancora dobbiamo fare affinché l’opinione pubblica percepisca l’immutata pericolosità delle mafie, nemiche della democrazia e dello sviluppo economico e sociale della nostra comunità.

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