Yannick insieme a J, il suo compagno. Foto di Yannick Fornacciari
Yannick insieme a J, il suo compagno. Foto di Yannick Fornacciari

Peer supporting: un servizio essenziale per chi si droga

Ci sono persone che hanno fatto o continuano a fare uso di droga capaci di aiutare, grazie alla loro esperienza, chi vive situazioni simili. Un'opera insostituibile, ma non ancora riconosciuta

Natalie Sclippa

Natalie SclippaRedattrice lavialibera

22 novembre 2022

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Nei servizi sanitari che si occupano di tossicodipendenze e riduzione dei danniprovocati dall’uso di droghe, i peer supporter svolgono un ruolo fondamentale. Queste persone – che hanno fatto uso di sostanze stupefacenti o continuano a “farsi” – riescono con più facilità, rispetto ad altre figure professionali, a entrare in contatto con chi dipende dalle sostanze. Conoscono luoghi, linguaggi e dinamiche del sottobosco e questa loro esperienza è di grande supporto per l’équipe dei servizi a bassa soglia, quelli di facile accesso che puntano ad alleviare i sintomi senza l’avvio di un iter burocratico, che spesso anziché avvicinare allontana. Nonostante il contributo alla causa, i peer continuano a pagare lo stigma del tossico e faticano a vedere riconosciute le loro speciali competenze. 

Consumatori al servizio dei consumatori

La definizione inglese peer supporter deriva da studi intrapresi negli anni Ottanta da Franz Trautmann, coautore nel 1995 del primo manuale del peer supporting. Secondo Trautmann, quello del pari non era un nuovo approccio, ma il riconoscimento di uno scambio di informazioni che già avveniva tra tossicodipendenti: dove comprare, cosa non prendere, come evitare di infettarsi. In quanto portatore di conoscenze specifiche, il peer è un formatore ideale, anche perché i processi di cambiamento si consolidano principalmente tra pari.

“Sembra quasi che tutti possano decidere sul tema tranne gli interessati” Alessio Guidotti - fondatore Itanpud


Se a livello europeo le esperienze sono state positive, in Italia si registra ancora una certa diffidenza nei confronti di queste figure, anche all’interno delle équipe di lavoro. "In un contesto come quello delle sostanze, segnate da un pregiudizio oppressivo – dice Alessio Guidotti, fondatore di Itanpud, rete italiana di persone che usano droghe – sembra quasi che tutti possano decidere sul tema tranne i diretti interessati".

Educazione all'aiuto

L’esperienza è utile, ma altrettanto lo è la formazione. Il Piano di azione nazionale dipendenze (Pand), pubblicato dal Dipartimento per le politiche antidroga, contiene alcuni punti che fanno riferimento ai peer supporter. Nella relazione è precisato che i programmi che vedono coinvolti i peer sono attivi in 14 regioni su 20, con il 45 per cento dei corsi che si concentra sulla prevenzione dei decessi droga-correlati (23 per cento) e sulla gestione delle overdose, insieme all’uso sicuro delle sostanze (22 per cento). 

“La carta di Genova propone di coinvolgere i peer nei gruppi di lavoro. Normare questa attività è una scelta professionale
ma soprattutto politica”Ezio Farinetti - psicologo e psicoterapeuta

"Una delle proposte della carta di Genova – spiega Ezio Farinetti, psicologo psicoterapeuta – era che l’operatore alla pari venisse coinvolto all’interno dei gruppi di lavoro. Normare questo ruolo è una scelta professionale, ma soprattutto politica". 
L’altro ostacolo è rappresentato da quella parte del mondo del sociale che si pone come unico obiettivo l’emancipazione dalla sostanza. "Identificare delle competenze non significa idealizzare il consumatore, ma portare a una conoscenza migliore del fenomeno che si vuole affrontare" conclude Farinetti.

I peer non sono tutti uguali

Esistono diversi modi di concepire l’azione dei peer, coinvolti in base alle esperienze personali e al percorso da affrontare. Nella maggior parte dei casi, aiutano ad affrontare l’utilizzo di sostanze all’interno del proprio gruppo di appartenenza, attraverso la divulgazione di conoscenze sulla riduzione del danno e dei rischi. Condividono buone pratiche, come ad esempio cambiare la siringa dopo l’iniezione. Capita poi che controllino la qualità della droga, suggerendo all’acquirente se comprarla o meno da quello spacciatore. C’è chi frequenta i servizi di bassa soglia (come drop in e dormitori) e aiuta gli operatori ad accogliere i nuovi arrivati, mentre altri hanno competenze specifiche e professionali – educatore, operatore socio-sanitario – e anche un bagaglio di esperienza da consumatore. 

Conoscere i luoghi, capire le persone

Credere che i bisogni dei consumatori occasionali siano gli stessi di chi dipende da eroina o cocaina rischia di essere fuorviante. Nei luoghi del divertimento notturno, ad esempio, i giovani che consumano sostanze hanno un rapporto alla pari con chi le usa, spesso coetanei. Questo fa sì, da un lato, che si diffondano informazioni utili e, dall’altro, che i consigli non vengano recepiti come rimproveri o giudizi. Differente è l’approccio con dipendenze più impegnative: in questi casi è necessario che il peer abbia trovato un equilibrio con l’assunzione oppure si sia disintossicato.

Il fatto che vi siano peer supporter non più giovanissimi è interpretato come un successo: significa, infatti, che l’aspettativa di vita si è alzata

Il fatto che vi siano peer supporter non più giovanissimi è interpretato come un successo: significa, infatti, che l’aspettativa di vita si è alzata, grazie al lavoro di comunicazione, alle azioni di sensibilizzazione portate avanti nei territori e alla diffusione di farmaci che sono riusciti a monitorare malattie e infezioni fino a pochi decenni fa letali. 

Un futuro da costruire

Riconoscere una competenza specifica ai peer può avere un effetto riabilitante e aumentare in loro consapevolezza e autostima, anche a livello lavorativo. Essere parte integrante di un percorso di peer supporting dà l’opportunità di riappropriarsi della propria vita, uscendo dalla logica assistenzialista che spesso accompagna i tossicodipendenti. La strada da percorrere, però, è ancora lunga. "Una cosa è dire che gli operatori alla pari sono utili, un’altra è fare funzionare il loro coinvolgimento – osserva Guidotti –. Molti non hanno ancora capito che il loro apporto è necessario affinché i servizi pubblici migliorino in termini di efficienza". 

Non si può essere peer tutta la vita

Esiste un altro aspetto di cui tenere conto: non si può essere peer per tutta la vita. I luoghi e le persone cambiano, così come i consumi. C’è chi esce dal “giro”, smette di frequentare chi prima faceva parte del gruppo di appartenenza. A un certo punto, insomma, arriva il momento di scegliere se continuare un percorso di formazione nell’ambito della comunicazione e sensibilizzazione o indirizzarsi verso altre strade, sia formative che di vita. 

Da lavialibera n°17

 

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