19 aprile 2021
La serie televisiva di Netflix su San Patrignano, SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano, ha il merito di avere riaperto al grande pubblico, inaspettatamente e con un’onestà intellettuale a cui non si era più abituati, il dibattito sulle droghe e le cure delle persone tossicodipendenti in comunità terapeutica. Incombe solo un grande rischio: riprendere la discussione sulle comunità come se, nei trenta anni e più trascorsi, non fosse successo niente. Come se il mondo delle droghe, del narcotraffico, dei consumatori, della dipendenza stessa e del suo trattamento non avessero subito radicali trasformazioni. Quel tempo è ormai passato. Al contrario, il discorso pubblico sulle droghe è rimasto fermo, immutato e datato, come la legge del 1990 che ancora governa il fenomeno.
L’epidemia di eroina per via endovenosa degli anni Ottanta fece da retroterra a un dibattito iper-drammatizzato e tutto giocato sulle dicotomie archetipe vita/morte, salvezza/perdizione, intransigenza/complicità. Il rilancio oggi di una discussione in quegli stessi termini, a scenario mutato in maniera radicale, non aiuterebbe a capire e a imparare dall’esperienza e un dibattito fuori tempo gioverebbe solo al tornaconto di una politica propensa ai vantaggi elettorali. Se viceversa il discorso “droghe” viene contestualizzato alla luce del ruolo oggi assunto dalle comunità terapeutiche, dei cambiamenti avvenuti nei consumatori, delle evidenze scientifiche emerse dalle cure, degli esiti ottenuti, dei nuovi assetti dei servizi, la rilettura a freddo del passato, prendendo le distanze dalle sue turbolenze, può utilmente contribuire a dare forza ad alcuni punti fermi condivisi e assodati, a cui si è lentamente e faticosamente pervenuti.
Effetto SanPa, malgrado l'interesse del tema, la politica resta ancora ferma
Gli anni di Vincenzo Muccioli a San Patrignano segnarono il “boom” delle comunità terapeutiche, a seguito del successo della precedente fase pionieristica, e comportarono sia l’espansione a dismisura delle persone accolte (di cui i duemila “ragazzi” presenti a “Sanpa” sono solo l’esempio più clamoroso), sia la moltiplicazione delle strutture (1.200 sull’intero territorio nazionale), la cui diffusione capillare sarà in seguito studiata, a livello europeo, come l’“anomalia italiana”. L’espansione è stata favorita da una pressoché totale deregulation normativa che ha accompagnato lo sviluppo delle comunità per tutti gli anni Ottanta. A titolo aneddotico, si rammenta lo scontro dell’inizio degli anni Novanta tra Luciano Lama (già segretario generale della Cgil e allora Sindaco di Amelia) e don Piero Gelmini (fondatore delle Comunità Incontro, che ad Amelia aveva il suo quartiere generale): il sindaco esigeva che, come per tutti i cittadini, si rispettassero leggi e procedure in merito ai lavori degli ampliamenti edilizi della comunità; il fondatore delle Comunità Incontro riteneva che rispetto all’urgenza di “salvare i giovani dalla droga” si dovessero concedere “giustificate e comprensibili” eccezioni.
Far "terra bruciata" intorno al tossicodipendente: questa era la teoria consigliata alle famiglie. Una volta "toccato il fondo", si poteva cominciare il recupero. Per molti, però, le conseguenze furono devastanti
È il clima che caratterizza tutti gli anni Ottanta fino ai primi dei Novanta: i servizi pubblici fanno ancora i conti con l’utilizzo del metadone “a scalare” in quanto l’uso “a mantenimento” del farmaco è ossessivamente demonizzato e accusato di collusione con la dipendenza. Le comunità terapeutiche vengono individuate come l’unico strumento efficace per “risolvere” in via definitiva il problema e fruiscono di un enorme consenso dell’opinione pubblica, ricevendo una delega sociale totale. Tutte le altre terapie sono ritenute ancelle e propedeutiche all’inserimento in comunità. Si diffonde una cultura di parole d’ordine, figlie di un accanimento terapeutico che si alimenta dell’angoscia dei familiari a fronte dello spropositato numero di overdosefatali di quegli anni. A tutte le famiglie con un figlio che consuma sostanze psicoattive veniva fornita un’unica ricetta generalizzata (in psicopedagogia definita “prescrizione invariabile”): fargli “terra bruciata” intorno e buttarlo fuori casa se non accettava di entrare i comunità. Era in auge la “teoria” del “far toccare il fondo” dell’esperienza della dipendenza, ritenendo che solo il confronto con le asprezze della vita di strada potesse motivare al percorso di recupero. Molti, risucchiati dalla vita di strada, subirono conseguenze devastanti, vittime di quell’approccio omologante e stereotipato, contrario alle ragioni della clinica e dell’individualizzazione del trattamento. Un calcolo della Lega italiana di lotta all’Aids (Lila) stima in 24mila le persone tossicodipendenti morte prematuramente per varie cause dalla fine degli anni Settanta al 1996.
Più le comunità si ingrandivano, più la filiera del controllo gerarchico inevitabilmente sfuggiva a chi era preposto a fungere da garante dei diritti di tutti e a tutelare la salvaguardia dei percorsi di ciascuno
All’interno di molte comunità fu adottato il modello dell’auto-mutuo-aiuto gerarchico, il cui metodo implicava che la verifica del rispetto delle rigide regole della convivenza e il controllo dei comportamenti idonei all’iter riabilitativo facessero capo alle persone dipendenti da più tempo ingaggiate nel percorso di recupero: compagni di viaggio con una più lunga esperienza di trattamento comunitario. Nel contesto dei grandi numeri delle persone accolte a dismisura (non di rado si arrivava alle tre cifre), la centralità della relazione, indispensabile al prendersi cura di un soggetto dipendente, non poteva che soccombere al primato della sorveglianza del rispetto delle regole, assurto a criterio discriminante per l’applicazione di misure premiali o punitive (dall’avanzamento del percorso in comunità all’espulsione). Più le comunità si ingrandivano, più la filiera del controllo gerarchico inevitabilmente sfuggiva a chi era preposto a fungere da garante dei diritti di tutti e a tutelare la salvaguardia dei percorsi di ciascuno. Le aspettative e la pressione sociale generate intorno alla missione “salvifica” delle comunità terapeutiche, a cui veniva data “carta bianca” nel fare i conti col disordine delle persone eroinomani con alle spalle carriere di furti, spaccio e periodi di reclusione, facilitarono il connubio tra lo sviluppo di una progressiva autoreferenzialità nella gestione delle strutture e la tendenza a esercitare “dosi” sempre maggiori di paternalismo autoritario (“Sappiamo noi cosa è bene per te. Tu non sei in grado di capire ora, ci ringrazierai dopo!”, è il tenore del pensiero), legittimando la tentazione verso l’uso di strumenti coercitivi nel trattare-curare la dipendenza. Tutte le comunità che non hanno rispettato la dignità delle persone e i loro diritti umani si sono trasformate in “istituzioni totali”, non differenti dai manicomi contro cui si batté, e vinse, la “legge Basaglia”.
Droga, la parola ai consumatori
La pratica della “mano forte” con le persone tossicodipendenti, nell’ambito della cosiddetta “guerra alla droga” sostenuta con forza dai presidenti statunitensi Richard Nixon e da Ronald Reagan, fu adottata dalla politica italiana e trovò sbocco nella legge sulle tossicodipendenze del 1990. Fortemente sostenuta da Bettino Craxi, rafforzato dal confronto con l’esperienza americana, la nuova legge si sostituì a quella precedente del 1975, ritenuta troppo permissiva. Fu poi mitigata, nei suoi aspetti più nefasti, dall’esito del referendum abrogativo del 1992. La discussione, nel parlamento e nel Paese, sulla nuova legge, spaccò in due il mondo delle comunità terapeutiche. Da una parte, insieme al governo a trazione socialista, si schierarono San Patrignano e molte altre comunità che si ispiravano a quel modello. Dall’altra, all’opposizione, c’era il gruppo “Educare, non punire”, titolo esplicativo di un cartello che metteva insieme il Gruppo Abele e il Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza (Cnca).
Diminuendo la sterile contrapposizione tra Sert e comunità, si sviluppa di più la collaborazione tra servizio pubblico e privato-sociale non profit, impegnato in particolar modo negli inserimenti lavorativi o abitativi e negli accompagnamenti educativi
Gli anni che seguirono videro l’Aids sovrapporsi alla dipendenza da eroina. Gli esiti dei percorsi terapeutici nelle strutture residenziali, che non furono quelli enfatizzati da ipocrite ricerche avallate da docenti universitari, rivelarono i loro limiti e le comunità persero buona parte dell’appeal salvifico di cui erano state investite. Gli atti di intesa Stato-Regioni, pur andando a regime lentamente e faticosamente nei percorsi a macchia di leopardo nelle diverse autonomie regionali, hanno col tempo normato gli standard strutturali e di personale delle comunità terapeutiche introducendo il controllo pubblico da parte degli enti locali, subordinando l’autorizzazione al funzionamento e l’accreditamento delle comunità al rispetto della dignità delle persone accolte e dei loro diritti. I Sert furono legittimati nel trattamento metadonico a mantenimento, che per molte persone tossicodipendenti significò poter condurre una cura ambulatoriale senza dovere decontestualizzare la loro vita per 18 mesi-due anni. Ricerche e studi hanno sottolineato come migliori risultati nel trattamento e nella cura fossero ottenuti con la stretta integrazione tra interventi sanitari e sociali. Diminuendo la sterile contrapposizione tra Sert e comunità, si sviluppa di più la collaborazione tra servizio pubblico e privato-sociale non profit, impegnato in particolar modo negli inserimenti lavorativi o abitativi e negli accompagnamenti educativi. Le comunità hanno accettato al loro interno i trattamenti psico-farmacologici e anche l’introduzione del metadone nelle strutture. Tra Sert e comunità, inoltre, avviene uno scambio d’utenza sempre più frequente, per cui le persone vengono trattate nelle loro varie fasi con interventi più o meno intensi, a seconda delle necessità.
Passi avanti molti, lenti e faticosi, ma consolidati. Solo la politica rimane immobile. La mancata convocazione da undici anni della Conferenza nazionale sulle droghe, prevista per legge ogni tre anni, ne è il segnale più esplicito. Permane la legislazione del 1990, che ha ancora come riferimento i ragazzi dello zoo di Berlino. Il governo di Mario Draghi ha improvvisamente battuto un colpo. A sorpresa, dopo anni di richieste inevase delle associazioni, è stato nominato un referente politico per il Dipartimento delle politiche antidroga, alle dirette dipendenze dalla presidenza del Consiglio, con il compito di coordinare e rendere congruenti gli interventi dei diversi ministeri interessati alla questione droga. Ancora più a sorpresa è stata designata alla funzione la ministra per le Politiche giovanili Fabiana Dadone, del Movimento 5 stelle, con fama di antiproibizionista. Draghi pare non essersi mai espresso in pubblico su come intende affrontare il problema delle sostanze psicoattive illegali. Come economista si può presumere che prediliga un approccio teso a ridurne le spese e forse anche a fare della gestione della problematica una potenziale fonte di entrate, come sta avvenendo in molte zone del mondo con la legalizzazione della cannabis. Certo è che la nomina non è passata inosservata, provocando una immediata levata di scudi da parte del centrodestra che sostiene il governo, richiamando il presidente del Consiglio al mero compito affidatogli dal presidente Sergio Mattarella: superare l’epidemia di Covid e rilanciare l’economia. La questione droga, viene sottolineato in primo luogo dalla Lega di Matteo Salvini, è questione divisiva, come lo ius soli e la legge contro l’omofobia, che per loro devono rimanere argomenti tabù: intoccabili.
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