19 dicembre 2022
Entro il 2030, almeno il 30 per cento delle aree del pianeta deve essere messo al sicuro. Così è scritto nel target 3 dell’accordo firmato a Montreal, in Canada questa notte e che sancisce la fine della quindicesima Conferenza delle Parti sulla biodiversità. Un passo storico secondo molti addetti ai lavori, vista la gravità della situazione attuale: una media del 25 per cento delle specie animali e delle piante è minacciata. Questo significa che circa un milione di specie rischia l’estinzione. “Ciò che sta accadendo è drammatico – spiega Lorenzo Ceccarese, responsabile della conservazione della biodiversità in Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) e rappresentate dell'Ipbes, la piattaforma internazionale che si occupa del tema – Il declino della natura è stato messo in evidenza da studi scientifici ed è da questa base che si deve partire per raggiungere gli obiettivi al 2030 e al 2050”.
“La posizione di alcuni scienziati rimane comoda: quella di moderazione, conservativa, che si limita a fare il lavoro di consigliere. Questo è in parte accettabile quando la situazione è normale, ma non in momenti di emergenza”Elia Valentini - Senior lecturer all'Università dell'Essex e attivista di Scientist rebellion
Un altro punto fondamentale sollevato durante il dibattito – e che si era già proposto durante la Cop27 in Egitto dal 6 al 18 dicembre – ruota intorno al ruolo che la comunità scientifica può avere per spingere verso azioni più coraggiose e che vede posizioni diverse, come spiega Elia Valentini, neuscienziato e senior lecturer al dipartimento di psicologia all'Università dell'Essex (Gb) e attivista di Scientist rebellion. “La posizione di alcuni scienziati rimane comoda: quella di moderazione, conservativa, che si limita a fare il lavoro di consigliere. Questo è in parte accettabile quando la situazione è normale, ma non in momenti di emergenza”.
Se si potesse descrivere la conferenza solo con le reazioni dei 196 Paesi partecipanti, ci sarebbero da un lato gli applausi degli organizzatori (Cina e Canada) e dall’altro il disappunto di alcuni Stati africani per il mancato raggiungimento di un fondo ad hoc per finanziare lo sviluppo della tutela di aree a rischio.
Ci sono due scadenze: una al 2030 e l'altra al 2050, che permetteranno di monitorare i passi in avanti
Alcune decisioni, però, sono importanti da sottolineare perché delineano quattro grandi obiettivi, 23 target da rispettare, e due grandi scadenze. Una a 30 anni e l’altra a 10. Nell’arco temporale più lontano, si vogliono ridurre, o in alcuni casi eliminare, le minacce alla biodiversità, attraverso un approccio sostenibile, in modo che tutti riescano a beneficiare delle varietà di specie presenti sul pianeta. Inoltre, si sottolinea come ciò che si riuscirà a ottenere – a più livelli: finanziario, di cooperazione e di conoscenza – sia accessibile a tutti i partecipanti.
I goal rischiano di apparire troppo lontani nel tempo, con il pericolo che i passi avanti non siano monitorabili. Per questa ragione sono presenti 23 obiettivi per il 2030. “Ci si è basati su un rapporto del Ipbes che risale a prima della pandemia – conferma Ciccarese – per focalizzare i punti di questo accordo. Di particolare interesse sono il target 2 e 3, perché mettono in chiaro quale percentuale di aree terrestri e marine deve essere messa al sicuro”. Se il terzo punto del documento punta alla conservazione di almeno il 30 per cento del mondo, così il secondo rimette al centro un altro tema fondamentale: il ripristino delle aree degradate. “Difficile, in questi casi – continua – è riuscire a monitorare il proprio territorio, specie in alcune aree del mondo, non avendo i giusti finanziamenti”. All’articolo 19, per questo motivo, si esplicitano anche delle risorse messe a disposizione dai Paesi sviluppati per 20 miliardi di dollari all’anno entro il 2025 e di 30 miliardi all’anno entro il 2030.
Entro il 2025 si devono riconoscere e poi eliminare o disincentivare i sussidi dannosi, “riducendoli di almeno 500 miliardi all’anno entro il 2030”
Oltre al denaro, importante per riuscire a implementare anche le tecnologie di salvaguardia ambientale, ci deve essere la consapevolezza di attingere ad alcuni valori dei indigeni, mettendo al centro i diritti di queste minoranze. “Non solo: – conclude – uno dei punti cardine è ripristinare gli habitat nelle zone agricole, dove si utilizzano ancora pesticidi pericolosi e che hanno bisogno di cambiamento profondo”. Per rinforzare l’azione, all’articolo 18 si legge che entro il 2025 si devono riconoscere e poi eliminare o disincentivare i sussidi dannosi, “riducendoli di almeno 500 miliardi all’anno entro il 2030”.
Se i passi in avanti per la conservazione della biodiversità appaiono consistenti, altrettanto interessanti sono i meccanismi di implementazione previsti, in particolare per quanto riguarda comunicazione, educazione e consapevolezza.
Da decenni studi e ricerche accademiche hanno sottolineato l’urgenza di agire contro la crisi climatica, rimanendo spesso inascoltati
Alla fine dell’accordo, infatti, si pone grande enfasi sulla costruzione di nuovi metodi per riuscire a facilitare il dialogo tra istituzioni, comunità scientifica e popolazione mondiale.
Da decenni studi e ricerche accademiche hanno sottolineato l’urgenza di agire contro la crisi climatica, rimanendo spesso inascoltati. Ecco che alcuni scienziati hanno deciso di aggiungere alla loro attività anche quella dell’attivismo, come accade per Scientist rebellion, movimento nato da Extinction rebellion, e che ha fortemente criticato l’inerzia politica che segue le scoperte, tanto da portarli a sposare la resistenza civile.
Di questa opinione è anche Elia Valentini, che insieme ad alcuni colleghi, è autore del paper “L’emergenza biosferica richiama gli scienziati a cambiare tattica” pubblicato quest’anno sulla rivista scientifica Elife. “In realtà in letteratura si distingue molto la differenza tra advocacy e activism, tra attivismo e un ruolo di consulenza o di chi fa campagna per qualcosa, come è successo per il dibattito sul nucleare. – spiega –. È in atto una radicalizzazione di una parte della comunità, perché c’è bisogno di un altro tipo di azione, che va dalla sensibilizzazione alla protesta”. E conclude: “In un momento come quello che stiamo vivendo, serve mobilitare l’opinione pubblica, partendo dall’interno e disseminando le nostre ricerche all’esterno dell’accademia. Il ruolo dello scienziato sta cambiando, c’è meno paura che l’attivismo danneggi la propria credibilità: è assolutamente necessario coinvolgere maggiormente le persone, attraverso figure che ispirano la loro fiducia, come gli scienziati”.
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