26 maggio 2023
Garantire l’accesso alle tecnologie e la navigazione in internet nelle carceri, nel 2023, dovrebbe essere parte integrante del trattamento e non una questione secondaria o problematica. Da questi aspetti dipendono, infatti, tanti dei nostri diritti di cittadini e tante delle nostre future possibilità lavorative. E quindi anche tanto del percorso di reinserimento sociale.
La rubrica di Antigone su lavialibera
Invece, oggi carcere e tecnologia non vanno d’accordo. È servita la pandemia di Covid-19, con tutte le sue chiusure a portare a un’apertura: quella del carcere alla tecnologia. All’indomani del primo lockdown nel marzo 2020 e delle proteste delle persone detenute in decine di istituti penitenziari, arrivarono centinaia di telefoni e tablet e si aprì la possibilità di fare videochiamate attraverso skype o whatsapp, con un minutaggio molto più ampio dei 10 minuti a settimana previsti da norme e regolamenti, anche per far fronte alla chiusura dei colloqui visivi. Tuttavia quell’apertura, nonostante l’auspicio che fosse definitiva, è durata poco e alla fine della pandemia si sono fatti passi indietro. In moltissime carceri le telefonate sono tornate a 10 minuti a settimana e solo con i classici apparecchi telefonici. Le video chiamate resistono solo in sostituzione dei colloqui in presenza.
Il problema dell’assenza di tecnologia in carcere è molto più serio di quello che si potrebbe pensare: il digital divide preclude opportunità di lavoro
Per chi, come noi di Antigone, entra in carcere costantemente, l’impressione è quella di essere catapultati in un mondo che fuori non esiste più. Dove la tecnologia si limita a televisioni e radio, come avveniva nelle nostre case oltre 30 anni fa. Dove tutto si muove attraverso carta e penna. Dalle cosiddette “domandine” (le istanze con cui i detenuti presentano tutte le loro richieste), alle forme di comunicazione con l’esterno che passano ancora attraverso lettere spedite con le poste, fino alle e-mail, disponibili in alcune carceri a pagamento, che vengono inviate da terzi (solitamente cooperative che gestiscono questi servizi) con in allegato fogli scritti dalle persone detenute di proprio pugno.
La tecnologia bene comune, contro le disuguaglianze digitali
Il problema dell’assenza di tecnologia in carcere è molto più serio di quello che si potrebbe pensare. Costantemente sentiamo parlare di digital divide e di quanto questo rappresenti una criticità enorme in un mondo che sempre più spesso, e per alcune cose ormai quasi esclusivamente, passa attraverso tecnologie digitali. Di quanto un gap da questo punto di vista possa precludere la fruizione di servizi, l’accesso alle informazioni, le opportunità di lavoro, impattando direttamente non solo sulla sfera relazionale delle persone, ma anche sul godimento di alcuni diritti inalienabili. Il divario digitale può rappresentare una forma di disuguaglianza e un grave fattore di esclusione sociale, che colpisce in particolar modo ceti sociali che già vivono in situazioni marginali e svantaggiate. Per questo, da tempo, le istituzioni governative sono impegnate nel tentare di colmare questo gap. Ovunque, tranne in carcere, dove invece questo divario viene ulteriormente ampliato.
Il carcere, troppo spesso, lungi dall’essere un luogo dove la pena produce reintegrazione sociale, diventa un luogo dove si riproducono le disuguaglianze esistenti all’esterno che, con il carico di stigmatizzazione sociale che rappresenta, non di rado si fanno anche più profonde. Il tema delle tecnologie ne è un esempio evidente.
Per chi è entrato in carcere dieci anni fa, tornare in libertà oggi significa tornare in un mondo completamente diverso. Gli smartphone iniziavano a diffondersi, ma ancora la maggior parte delle persone aveva telefoni senza connessioni a internet. Molti dei social network o delle app che utilizziamo quotidianamente non esistevano o erano agli albori e con una diffusione molto più limitata di oggi. Oggi la nostra vita, tanto privata quanto lavorativa, dipende totalmente da queste tecnologie (pensiamo solo alle app di messaggistica istantanea). Mentre dieci anni fa correva su binari diversi. Ma non è necessario guardare a tempi così lunghi “fuori” dalla società. Le tecnologie corrono sempre più veloci e anche pochi anni possono bastare a creare un grande divario.
Internet: diritto umano
Quando si parla di apertura alla tecnologia in carcere, solitamente ci si imbatte in resistenze e chiusure relative a questioni legate alla sicurezza. Ma, proprio l’esperienza di telefonini e tablet, dovrebbe aver contribuito a decostruire queste preoccupazioni. La maggior parte delle persone detenute ha una corrispondenza libera, può scrivere a chiunque e ricevere lettere da chiunque, senza censure né controlli. Non si capisce dunque perché questa corrispondenza non possa avvenire via e-mail anziché con le lettere cartacee. Le Mandela Rules, regole penitenziarie non vincolanti, adottate dalle Nazioni Unite nel 2015, a tal proposito affermano alla regola 58 che le comunicazioni con famiglia e amici dovrebbero avvenire "per iscritto e utilizzando, se disponibili, mezzi di telecomunicazione, elettronici, digitali e di altro tipo". Con quel “disponibili”, si riferiscono alle infrastrutture presenti nei Paesi che, non ovunque, sono così avanzate e pervasive come in Italia.
Negli istituti penitenziari sembra di essere catapultati in un mondo che fuori non esiste più. La tecnologia si limita a televisioni e radio, come avveniva nelle nostre case oltre 30 anni
Non si capisce poi quale pericolo possa nascondersi dietro al fatto che una persona in carcere, invece di leggere solo i giornali disponibili su carta, possa accedere a fonti informative più ampie e diversificate, attraverso le possibilità che internet offre. Ad esempio, questo articolo in carcere non lo potrà leggere nessuno. Così come non si capisce perché una ricerca su Wikipedia presenti più problemi di una ricerca su un’enciclopedia cartacea. Perché una persona detenuta, munita di Spid, non possa accedere a siti della pubblica amministrazione per controllare la sua posizione personale o per monitorare, ad esempio, l’andamento di suo figlio a scuola. Se alcuni siti possono poi destare preoccupazioni, c’è sempre la possibilità di bloccarne la navigazione. Nella pubblica amministrazione (ma anche in diverse aziende private), di fatto questa modalità è già utilizzata e i dipendenti non hanno libero accesso a molti portali e a molte applicazioni.
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