Coronavirus a Roma, la scuola primaria Melissa Bassi consegna tablet per lezione a distanza al campo rom di via di Salone. Foto C. Fabiano/ LaPresse, 23 aprile 2020, Roma
Coronavirus a Roma, la scuola primaria Melissa Bassi consegna tablet per lezione a distanza al campo rom di via di Salone. Foto C. Fabiano/ LaPresse, 23 aprile 2020, Roma

La tecnologia bene comune, contro le disuguaglianze digitali

Durante il lockdown almeno uno studente su 10 non aveva un computer su cui seguire le lezioni. Il Cura Italia stanzia (pochi) fondi per la didattica a distanza degli studenti meno abbienti, ma la strada da seguire potrebbe essere un'altra

Massimo Razz

Massimo RazziGiornalista e scrittore

17 luglio 2020

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Siamo tutti più connessi e quindi, potenzialmente più “inclusi”. Ma la connessione che ci unisce e ci collega non è uguale per tutti e finisce per diventare un nuovo punto di differenza, di discriminazione: un altro gradino della scala sociale da salire per chi parte da più lontano. Non è la prima volta che succede nella Storia dell’uomo: ci sono voluti secoli affinché l’istruzione fosse alla portata di (quasi tutti), ce ne sono voluti anche di più perché la sanità diventasse un diritto, perché i trasporti fossero disponibili a prezzi accettabili. Ogni grande svolta tecnologica o culturale ha sempre implicato la nascita di nuove differenze e ha sempre posto gli uomini “di buona volontà” davanti al problema di come colmarle.

Il divario digitale crea povertà educativa

Il lockdown dovuto al Covid-19 ci ha mostrato le importanti potenzialità della digitalizzazione: si può lavorare da casa con lo “smart working”, si può fare scuola attraverso dei computer, dei tablet o dei cellulari collegati a Internet. Non voglio parlare qui dei rischi insiti nella scuola a distanza: tutto è già stato detto ed è evidente che la rete non può sostituire ma solo aiutare quella “in presenza”. Ma anche quando, a settembre, i nostri figli torneranno a scuola, saremo in grado di dare a tutti il supporto digitale che serve? Ci saranno i computer e i tablet a scuola? E, ancora, quanti ragazzi avranno gli stessi strumenti anche a casa?

Ci sono 9,6 milioni di minori in Italia, di cui 8,5 sono rimasti a casa da scuola durante il lockdown. Gli altri, purtroppo, non vanno a scuola mai. Il 12,3% (20% nelle regioni meridionali) non ha un computer a casa Openpolis

I dati forniti da una documentatissima ricerca di Openpolis sulla “Disuguaglianza digitale” ci dicono che il problema c’è ed è enorme. In Italia ci sono 9,6 milioni di minori di cui 8,5 sono rimasti a casa da scuola durante il lockdown. Gli altri, purtroppo, non vanno a scuola anche senza il Covid. Il 12,3% (20% nelle regioni meridionali) non ha un computer a casa. Il 57% non ha un pc personale. E’ come se ai nostri tempi, avessimo dovuto dividere il “sussidiario” con papà, mamma, fratelli e sorelle.

Il lockdown e le misure anti-covid hanno avuto un grande impatto sulla vita di bambini e adolescenti, i grandi dimenticati dell'emergenza

Perché di questo si tratta: si può pensare, oggi, a far scuola senza utilizzare gli strumenti che fuori (negli uffici e nelle aziende) vengono usati per leggere, scrivere, far di conto e cercare in rete dati che, fino a 30/40 anni fa, erano raccolti in polverosi faldoni da consultare a mano? Già oggi la differenza tra il dentro (la scuola) e il fuori (il mondo del lavoro) è stridente. Centinaia di migliaia di bravi docenti si battono e si arrabattono per insegnare cose che, in alcuni casi, sono troppo lontane dal mondo. Ed è giusto che alle elementari s’impari a leggere e scrivere per lo più con i libri, la carta e la penna. Ma anche da lì è necessario partire insegnando l’uso degli strumenti sui quali i ragazzi scriveranno e leggeranno nel futuro ma già anche nel presente.

Perché la scuola del futuro sarà fatta di presenza e di connessione, di libri e di computer, tablet e telefonini. Esattamente come il mondo è già adesso: integrato tra quello che abbiamo dentro e la capacità di esprimerlo in tanti modi diversi: parlando, scrivendo, filmando, telefonando, cantando, suonando, facendo gesti. Qualcuno si scandalizza se una chitarra è elettrica o se, viceversa, non lo è? Gli strumenti e i supporti ci servono tutti e la scuola ci deve insegnare a usarli distinguendone storia, qualità, potenzialità e anche rischi. Nessuno dovrebbe uscire dalla scuola senza saper usare un computer, senza saper cercare un concetto, un dato, un testo, una notizia, su internet. Senza saperlo creare, scrivere e inviare a chiunque ci piaccia.

Il Cura Italia non cura il "digital divide"

Ma, oggi, a due mesi dalla ripresa della scuola “postcovidiana” (sembra un’era geologica) c’è il fondato timore che nulla o quasi sia cambiato. Lo Stato, finora, ha stanziato 150 milioni (nel decreto “Cura Italia”) “per la didattica a distanza degli studenti meno abbienti” e per la “digitalizzazione delle scuole elementari e medie”.

La metà dei comuni italiani (per circa 6,7 milioni di persone) non sono ancora arrivati alla banda larga. Secondo l'indice “Desi” (Digital Economy and Society Index), l’Italia è al 25esimo posto sui 28 stati dell’Ue

Diciamo che potrebbero servire a comprare un milione/un milione e mezzo di tablet, ma ce ne vorrebbero almeno altrettanti per mettere a posto i livelli (spesso infimi) di connessione delle scuole, per dotarle di wi-fi abbastanza potente e per superare il “digital divide” per cui oltre la metà dei comuni italiani (circa 4.000 su 7.903 per circa 6,7 milioni di persone) non sono ancora arrivati alla banda larga (30 mbps; velocità di “scarico”). L’obiettivo dato dall’Unione Europea era di arrivare al 100% di banda larga entro quest’anno.

E restando all’Europa e all’indice “Desi” (Digital Economy and Society Index) che prende in esame cinque parametri (connettività, capitale umano, utilizzo di internet, servizi pubblici digitali e integrazione delle tecnologie) l’Italia è desolatamente al 25esimo posto sui 28 stati dell’Ue. Solo per due parametri (connettività e servizi pubblici, siamo tra il diciassettesimo e il diciannovesimo posto), per gli altri tre, l’Italia è quasi in fondo alla graduatoria.

Lo confermano i dati sulla disponibilità di pc nelle scuole. A Sondrio, la provincia che mostra la situazione più avanzata, ci sono 10,9 computer ogni cento studenti, ma, mediamente nella maggior parte delle province italiane si viaggia intorno ai cinque e anche meno. Per quanto riguarda le grandi città, Roma è appena a quota 3,3, Bologna a 5,2, Milano a 5,7. I dati migliori sono per L’Aquila (8,7), Trieste (7,5) e Potenza (7,3). I peggiori: Cagliari (2,1), Perugia (2,4) e Genova (3,2). Immaginatevi, nella migliore delle ipotesi, 10/15 studenti più l’insegnante  che “lavorano” intorno a un unico Pc e, nella peggiore, più di 30 che si accalcano intorno a un’unica macchina spesso obsoleta e lentissima.

Un'idea per la digitalizzazione della vita scolastica (e non solo)

Nel 2010, lo scienziato informatico statunitense Nicholas Negroponte lanciò la campagna “One Laptop Per Child” con l’obiettivo di costruire un portatile essenziale ma perfetto e a costo bassissimo in grado di servire qualunque esigenza cognitiva e comunicativa dei bambini di tutto il mondo (soprattutto di quelli del Terzo e del Quarto) senza bisogno di collegamento all’energia elettrica essendo dotato di celle a energia solare. Un progetto straordinario che si è un po’ perso per strada ma che, forse, sarebbe giusto rilanciare in qualche forma. Uno Stato (o un’unione di stati come la Ue) potrebbe/dovrebbe chiedere a un consorzio di costruttori (così nessuno resta fuori) di produrre un laptop di questo genere da distribuire in comodato a tutti gli studenti senza distinzione di censo. Nella scuola americana, da decenni, i libri vengono assegnati ai ragazzi solo per l’anno scolastico in cui servono e passano da uno all’altro finché reggono “strutturalmente”, poi vengono cambiati. Sarebbe impossibile immaginare uno strumento del genere per ogni studente italiano da cambiare tre volte nell’arco di una vita scolastica alla fine di ogni ciclo?

Cosa dovrebbe contenere uno strumento del genere? Una buona connessione internet, una serie di programmi di scrittura, calcolo, gestione dati e loro rappresentazione (Word, Excell, Access magari nella versione Open Office che non costa nulla), tanti libri (scolastici, di narrativa: quei dieci/venti che ciascun ragazzo dovrebbe leggere e un modo per procurarsene altri a basso prezzo), accesso a un’edicola digitale in cui leggere un giornale nella versione digitale del cartaceo, una telecamera, qualche strumento (Skype, Zoom ecc.) di comunicazione a distanza. L’investimento iniziale, a 100 euro a computer per 8 milioni di studenti,  sarebbe intorno agli 800 milioni. Altrettanti potrebbero andare in connessioni, diritti, spese per abbonamenti e libri. Poi, ogni anno basterebbe meno di un terzo per rimpiazzare gli strumenti obsoleti e acquistarli per i nuovi arrivati.

La tecnologia come bene comune

Utopia? Può darsi, ma perché qualcuno non si mette davvero a valutare costi e benefici di un progetto di questo genere? E un computer utilizzato per tre anni da uno studente delle medie (o per 5 da uno studente del liceo) opportunamente “revamped”, non potrebbe essere regalato, in un passaggio generazionale a rovescio, a un over 67 che va in pensione e che ha il diritto/dovere di mantenersi collegato, informato, immerso come gli altri nella società integrata?

Piccoli, inutili germi di socialismo digitale nel 2020? Ma già molte altre cose, nel nostro modo analogico, sono “comuni” e ne possiamo fare uso a titolo gratuito e senza pagare: dalle strade cittadine, a quelle provinciali, ai boschi, ai fiumi, al mare con le spiagge libere; ma anche agli ospedali e alle stesse scuole. Non esistono e non dovrebbero esistere tabù nella capacità di una società come la nostra di cogliere un’esigenza comune e renderla davvero tale utilizzando le risorse comuni (quelle, che si definiscono derivanti “dalla fiscalità generale”). Possiamo escludere, per motivi di censo, qualcuno dal camminare per la strada, dall’essere curato, dall’andare a scuola o dal farsi un bagno in mare o una camminata in un bosco? Chiunque direbbe: “No, non possiamo”. E vi potete immaginare un mondo in cui una parte delle persone, dei giovani, in particolare, ma anche degli anziani, non possa essere connesso per motivi di censo o non sappia usare gli strumenti moderni della connessione, della conoscenza e dell’informazione? Nessuno ci ha costretti ad arrivare con la tecnologia dove siamo oggi. Ma una cosa è certa: quel posto è e deve essere di tutti. 

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