30 giugno 2023
No, la parola hacker non è sinonimo di criminale. Anche se i media, soprattutto italiani, amano usarla a sproposito. E anche se sarebbe più opportuno riferirsi ai criminali informatici con il termine cracker. Eppure, non sempre e non ovunque è stato così. Al loro debutto mediatico oltreoceano, gli hacker erano rappresentati in modo positivo, al pari di ragazzi prodigio. È negli anni Ottanta che comincia a prendere piede il parallelo tra hacker e criminale, o – meglio – tra hacker e bandito, grazie anche a personaggi diventati leggendari, come Kevin Mitnick, protagonista di alcune celebri incursioni nei sistemi informatici del governo statunitense. Solo con l’affermarsi del movimento open source, promotore del software libero e di cause politiche quasi all’unanimità ritenute positive, la parola sarà oggetto di una risemantizzazione da parte della società che, però, non sembra aver attecchito nel nostro Paese.
Da un narcos a un banchiere: la storia criminale della società che dota le mafie di criptofonini
Lo racconta Federico Mazzini, professore associato di digital history e storia dei media e della comunicazione dell’università di Padova, in Hackers. Storia e pratica di una cultura (Laterza): un libro che ripercorre l’evoluzione dell’hacking, individuandone la genesi ben prima dei computer, e al di fuori delle aule universitarie Usa. Si parte dai primi del Novecento, con i radioamatori che costruivano strumenti fai-da-te per sfidare la concezione di una tecnologia chiusa, voluta dal papà del telegrafo Guglielmo Marconi. In loro – dice Mazzini – erano già presenti alcune caratteristiche che sono poi state attribuite alla cultura hacker e cioè un rapporto creativo, privilegiato, tra giovani e tecnologia e la convinzione che questa relazione "non potesse fiorire se non all’interno di una comunità, capace di coordinare gli sforzi e dargli valore".
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