Raluca, la "spaccina" che cura la mia salute culturale

Quando parti per l'Erasmus e ti trasferisci per pochi mesi è difficile scegliere quali libri metterai in valigia. Per fortuna, poco prima di capire come si scrivesse un'autocertificazione in romeno ho conosciuto lei, la mia insegnante che mi rifornisce di testi

Francesca Giglione

Francesca GiglioneStudentessa di Cooperazione internazionale all'Università degli studi di Trieste

6 giugno 2020

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Fa caldo per essere marzo, i guanti sembrano appiccicosi e ho come la sensazione che mi manchi il fiato. Dice che si sarebbe fatta trovare ai gradini della grande chiesa. È puntualissima: porta anche lei la mascherina e indossa un cappotto nero. Ci facciamo cenno con la testa, quando sono abbastanza vicina da vedere la grande busta della spesa lei si ferma. Lascia la busta sul primo gradino e fa un passo indietro. Io ne faccio due in avanti. Prendo la busta, controllo rapidamente il contenuto: ci sono! Libri, libri e libri. Copertine di colori e forme diverse. Vorrei aprirli subito, sapere i titoli o sbirciare qualche pagina all’interno ma non posso farlo. Le sorrido, pensando riesca in qualche modo a vederlo.
 
Esiste un parco al centro della città di Oradea attorno al quale, da qualche tempo, avviene uno spaccio di cultura. Non esiste altro modo di definirlo se non un vero e proprio spaccio sia per l’esigenza di chi va a procura del bene, sia per la modalità con cui questo viene distribuito. Oradea è una città a nord-ovest della Romania, in Transilvania, dove per molto tempo, come nel resto del mondo, la maggioranza delle attività sono rimaste chiuse e le persone a casa. Tra queste ci sono anche gli studenti italiani arrivati qui per iniziare il loro Erasmus e scoprire questo Paese prima che tutto si fermasse.
 
Nasce così questo spaccio: nasce da una reale necessità, da un bisogno di scoprire il fuori rimanendo dentro. Poco prima di capire come si scrivesse un’autocertificazione in romeno e poco prima di decidere dove avrei legato e lasciato la mia bicicletta, conosco lei, Raluca: la mia "spaccina". Una donna, una madre, un'insegnante, la mia, un’editrice e traduttrice romena che parla perfettamente più lingue tra cui l’italiano. Quando ti trasferisci per pochi mesi è difficile scegliere quali libri metterai in valigia: finisci per prenderne due o tre, spesso libri che non hai ancora letto, consapevole che non sono i tuoi libri preferiti. Questo uno dei tanti retroscena di una tipica esperienza all’estero di uno studente universitario: una casa non tua piena di scaffali vuoti, su cui non ti soffermi davvero all’inizio.
Pensavo di stare bene, "la salute non manca", dicevo. E invece mancava! Mancava la salute culturale, come la definisce Raluca
“Come stai? Riesci a mantenere i contatti con l’università come Erasmus? Posso aiutarti in qualcosa?”, mi chiede un giorno Raluca. “Vorrei leggere un libro, un libro vero da poter sfogliare che magari mi parli di qualcosa di questo territorio. Però sto bene dai, la salute non manca”, le rispondo. E invece mancava. Mancava l’attenzione verso un aspetto delicato del fare salute. Salute culturale la definisce Raluca. Lei che i libri li pubblica, li edita, li traduce, legge e rilegge, utilizza questa espressione in maniera del tutto naturale durante una delle nostre lezioni di romeno. Come se stesse parlando di qualcosa di scontato, qualcosa di già sentito. Invece colpisce, non tanto perché sia una novità utilizzare e definire la cultura come uno strumento che accompagna e aiuta il nostro stato di salute, ma perché chiamarla per nome permette una presa di coscienza che restituisce senso di responsabilità nel fare salute attraverso la cultura. Quello spaccio non è più un semplice passaggio o scambio di libri bensì un modo di restituire valore e creare uno spazio di discussione. Raluca ad ogni suo libro accompagna una storia: ogni tanto è personale, ogni tanto è quella di autori che hanno fatto, e fanno, la rivoluzione culturale di un Paese come la Romania.
 
Salute culturale non è condividere dividendo o dando senza contestualizzare o valorizzare. Salute culturale è relazioni, spazi, tempi, attenzioni ma soprattutto è un bisogno, un bisogno vero. Giorgio Gaber sosteneva che la cultura dovesse essere segreta descrivendola come delicata e permalosa poiché desiderosa di essere amata e curata. Il timore che la stupidità si serva di un’idea, pensiero o espressione è la motivazione che spinge il cantautore a pensare che la cultura debba essere nascosta e segreta. Eppure, il rapporto che c’è tra la partecipazione culturale e lo stato di salute può ritenersi privilegiato ma anche funzionale se intrinseco in un sistema di dominio pubblico. Fare e parlare di salute culturale non è da identificarsi come argomento legato a momenti di tempo libero, di intrattenimento o superflui, bensì ad un reale percorso di miglioramento personale e collettivo di contrasto all’analfabetismo di ritorno, all’ignoranza arrogante e alla fragilità della solitudine.
 
Salute culturale è la forte sensazione di poter davvero vivere la Romania e un Erasmus tramite i suoni dolci di una lingua nuova, è il rumore delle pagine sfogliate che rivelano piano piano, riga dopo riga, la Storia di un Paese che mi ospita; è la piega agli angoli che mi spiega che lì, sul quel concetto, qualcuno prima di me si era soffermato, ma soprattutto sono gli aneddoti dietro ogni singolo libro che mi vengono lasciati e svelati ogni qualvolta questo arriva alle mie mani.
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