12 settembre 2023
NUOVA DELHI – Per giorni Kavita Krishnan ha guardato e riguardato il video delle donne violentate a Manipur, Stato nord-orientale dell’India. Due ragazze costrette a denudarsi e a sfilare per strada, circondate, palpate e malmenate da decine di uomini. Siamo al confine col Myanmar, dove è in corso uno dei più antichi conflitti etnici dell’Asia. Quello tra la minoranza kuki, di religione cristiana, e la maggioranza meitei, di fede indù. Attiviste e attivisti hanno più volte denunciato gli abusi, senza ascolto, dice Krishnan. Stavolta però è diverso. "Si tratta di violenze sponsorizzate e legittimate dalla politica xenofoba portata avanti dal Bharatiya janata party, il partito di governo".
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Femminista e politica, Krishnan è in India uno dei volti più noti nella difesa dei diritti delle donne. Una battaglia che per lei è sempre stata legata al destino delle minoranze, perché "l’uguaglianza o è per tutti o per nessuno, e richiede un riconoscimento delle differenze". Parla seduta sul divano di un modesto appartamento che si trova nel Vasant Kunj, un conglomerato urbano di Delhi non troppo lontano dall’aeroporto. Una casa molto diversa da quella che ci si aspetta per chi è stata 20 anni ai vertici del partito comunista indiano. Fino al 2022, quando le critiche a Russia e Cina le sono costate la rimozione da tutti gli incarichi. La conversazione è un flusso di coscienza interrotto solo dalla gatta curiosa e dalla mamma che offre tè speziato, frittelle di riso e lenticchie. Kavita scosta la gatta, ringrazia la madre e racconta. Spiega come le discriminazioni siano insite nella società indiana, ancora divisa in caste, e ammette di essere preoccupata. "C’è qualcosa di nuovo, e pericoloso, nei fatti di Manipur. L’attuale crisi si fonda su pregiudizi e motivi di contrasto già esistenti, ma è soprattutto il diretto prodotto del clima politico nazionale".
Il primo ministro Narendra Modi ha taciuto a lungo sugli scontri, diventati più sanguinosi agli inizi dell’estate. Ha ignorato gli oltre 130 morti e le migliaia di sfollati. Ma di fronte alle ultime barbarie dei meitei sui kuki, finite sui giornali internazionali, non è più riuscito a fare finta di nulla. "Quanto accaduto alle figlie del Manipur non potrà mai essere dimenticato", ha tuonato aggiungendo di avere "il cuore pieno di dolore e rabbia". Le parole di altri esponenti del suo partito, però, raccontano un’altra storia. Il governatore del Manipur, Nongthombam Biren Singh, ha firmato una serie di cinguettii in cui lascia intendere che i kuki non abbiano alcun diritto di restare in India perché birmani.
"Le discriminazioni sono insite nel sistema delle caste. Ma se prima lottavamo contro un fenomeno sociale, adesso lottiamo contro le istituzioni”
Mentre Amit Shah, ministro degli Interni, ha più volte definito i migranti "termiti", promettendo di scacciarli. Una propaganda che – denuncia Krishnan – alimenta una narrazione tossica nei confronti delle minoranze. "È questa la differenza tra le violenze a cui assistiamo oggi rispetto a simili episodi del passato", spiega l’attivista. In quel susseguirsi di colline e valli fertili che è il Manipur, le terre contese e le ragioni identitarie sono da anni motore di duri contrasti tra comunità, ma se i kuki non sono "vittime perfette", è innegabile che gli attacchi dei meitei oggi "siano organizzati e godano di un sostegno statale".
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