29 febbraio 2024
"Non possiamo vedere l’Europa progredire da sola mentre noi restiamo indietro". Melusi Simelane, 33 anni, ha fatto di questo credo la sua missione. Nato e cresciuto in eSwatini, piccola monarchia dell’Africa meridionale, fino a qualche anno fa conosciuta come Swaziland, nel 2018 è stato tra gli organizzatori del primo pride nella storia del paese, in cui l’omosessualità è ancora criminalizzata. Ha fondato eSwatini sexual and gender minorities, la prima associazione per i diritti Lgbt riconosciuta ufficialmente, e lavora per il Southern Africa litigation centre, occupandosi di programmi di protezione dei diritti civili. A lavialibera racconta la sua lotta contro le discriminazioni.
Simelane, cosa l’ha spinto a diventare attivista?
Sono cresciuto in una famiglia cristiana molto osservante, dove la sessualità è sempre stata un tabù. Ho sempre saputo di essere diverso e non l’ho mai nascosto. Non pensavo fosse un problema, fino a quando a scuola ho iniziato a essere bullizzato. Al liceo, poi, sono stato vittima di un’aggressione sessuale. Lì ho scoperto quanto sia difficile per le persone come me farsi credere e ricevere assistenza. Allora ho scelto di usare le mie competenze per provare ad alleviare le sofferenze di chi ha esperienze simili alla mia, a partire dalla difficoltà di accesso ai servizi pubblici, all’assistenza sanitaria e alle libertà fondamentali.
Come è nata l’idea di organizzare l’eSwatini pride?
Nel 2017, io e altri attivisti siamo stati invitati nella residenza dell’ambasciatrice degli Stati Uniti per celebrare il mese dell’orgoglio Lgbt. Ci ha fatto molto piacere, ma ho pensato: "Siamo noi che dovremmo invitare te". Allora abbiamo pensato di organizzare un nostro pride. Chiaramente abbiamo dovuto fare i conti con l’opposizione di alcuni segmenti della società, ma la vera battaglia è stata ottenere i permessi dalle autorità locali. Da allora la parata si tiene ogni anno.
A che punto siamo con i diritti civili in Africa?
Sono passati 75 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, ma siamo ancora lontanissimi dalla sua realizzazione. Non è solo un problema africano: in tutto il mondo i governi stanno promuovendo politiche regressive e le istituzioni internazionali sono sempre più sotto attacco. Lo vediamo con i tentativi di screditare la Corte internazionale di giustizia e le Nazioni unite in generale. Certo, i governi hanno enormi responsabilità, ma conta anche se e come noi cittadini votiamo, chiediamo conto ai politici delle loro decisioni e usiamo la nostra voce per promuovere un cambiamento.
Trentatré Stati africani su 55 puniscono l’omosessualità con il carcere e le misure repressive sono in aumento. Allo stesso tempo, paesi come l’Angola, il Gabon e Mauritius hanno optato per la decriminalizzazione. Cosa sta succedendo?
Non appena vengono fatti alcuni progressi, arrivano i tentativi di tornare indietro. Un esempio è il Kenya: lo scorso febbraio, la Corte suprema ha autorizzato per la prima volta la registrazione di un’organizzazione per i diritti della comunità Lgbt. Subito dopo, al parlamento è stato presentato un disegno di legge che prevede pene durissime per le relazioni tra persone dello stesso sesso. Lo stesso copione si è ripetuto anche in Botswana e Namibia.
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