Mbabane (eSwatini), 2018. Il fotografo sudafricano Sabelo Mkhabela, autore di questa foto, ha documentato il primo pride Lgbt dello eSwatini (Swaziland)
Mbabane (eSwatini), 2018. Il fotografo sudafricano Sabelo
Mkhabela, autore di questa foto, ha documentato il primo pride Lgbt dello eSwatini (Swaziland)

Africa, l'attivista Lgbtq: "Sui diritti c'è molto da fare. Non solo qui"

"A 75 anni dalla Dichiarazione universale, siamo ancora lontanissimi dalla sua realizzazione. E non è solo un problema africano", sostiene Melusi Simelane, organizzatore del primo pride in eSwatini

Paolo Valenti

Paolo ValentiRedattore lavialibera

29 febbraio 2024

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"Non possiamo vedere l’Europa progredire da sola mentre noi restiamo indietro". Melusi Simelane, 33 anni, ha fatto di questo credo la sua missione. Nato e cresciuto in eSwatini, piccola monarchia dell’Africa meridionale, fino a qualche anno fa conosciuta come Swaziland, nel 2018 è stato tra gli organizzatori del primo pride nella storia del paese, in cui l’omosessualità è ancora criminalizzata. Ha fondato eSwatini sexual and gender minorities, la prima associazione per i diritti Lgbt riconosciuta ufficialmente, e lavora per il Southern Africa litigation centre, occupandosi di programmi di protezione dei diritti civili. A lavialibera racconta la sua lotta contro le discriminazioni.

Melusi Silemane, attivista e organizzatore del primo pride in eSwatini
Melusi Silemane, attivista e organizzatore del primo pride in eSwatini

Simelane, cosa l’ha spinto a diventare attivista?
Sono cresciuto in una famiglia cristiana molto osservante, dove la sessualità è sempre stata un tabù. Ho sempre saputo di essere diverso e non l’ho mai nascosto. Non pensavo fosse un problema, fino a quando a scuola ho iniziato a essere bullizzato. Al liceo, poi, sono stato vittima di un’aggressione sessuale. Lì ho scoperto quanto sia difficile per le persone come me farsi credere e ricevere assistenza. Allora ho scelto di usare le mie competenze per provare ad alleviare le sofferenze di chi ha esperienze simili alla mia, a partire dalla difficoltà di accesso ai servizi pubblici, all’assistenza sanitaria e alle libertà fondamentali.

Come è nata l’idea di organizzare l’eSwatini pride?
Nel 2017, io e altri attivisti siamo stati invitati nella residenza dell’ambasciatrice degli Stati Uniti per celebrare il mese dell’orgoglio Lgbt. Ci ha fatto molto piacere, ma ho pensato: "Siamo noi che dovremmo invitare te". Allora abbiamo pensato di organizzare un nostro pride. Chiaramente abbiamo dovuto fare i conti con l’opposizione di alcuni segmenti della società, ma la vera battaglia è stata ottenere i permessi dalle autorità locali. Da allora la parata si tiene ogni anno.

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A che punto siamo con i diritti civili in Africa?

Sono passati 75 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, ma siamo ancora lontanissimi dalla sua realizzazione. Non è solo un problema africano: in tutto il mondo i governi stanno promuovendo politiche regressive e le istituzioni internazionali sono sempre più sotto attacco. Lo vediamo con i tentativi di screditare la Corte internazionale di giustizia e le Nazioni unite in generale. Certo, i governi hanno enormi responsabilità, ma conta anche se e come noi cittadini votiamo, chiediamo conto ai politici delle loro decisioni e usiamo la nostra voce per promuovere un cambiamento.

Trentatré Stati africani su 55 puniscono l’omosessualità con il carcere e le misure repressive sono in aumento. Allo stesso tempo, paesi come l’Angola, il Gabon e Mauritius hanno optato per la decriminalizzazione. Cosa sta succedendo?
Non appena vengono fatti alcuni progressi, arrivano i tentativi di tornare indietro. Un esempio è il Kenya: lo scorso febbraio, la Corte suprema ha autorizzato per la prima volta la registrazione di un’organizzazione per i diritti della comunità Lgbt. Subito dopo, al parlamento è stato presentato un disegno di legge che prevede pene durissime per le relazioni tra persone dello stesso sesso. Lo stesso copione si è ripetuto anche in Botswana e Namibia.

Si è parlato tanto della scelta dei vescovi africani di opporsi alla decisione di Papa Francesco di autorizzare la benedizione delle coppie omosessuali. L’ha sorpreso?
No, in diverse occasioni la chiesa africana si è opposta al progresso dei diritti civili. Ma non mi interessa granché cosa dicono gli uomini di chiesa o se sono in disaccordo tra loro. Noi ci preoccupiamo di cosa dice e fa lo Stato, se le sue leggi rispettano o no i diritti umani.

“La chiesa africana si è opposta al progresso su questo tema. Non mi interessa granché. Noi ci preoccupiamo di cosa dice e fa lo Stato”

In un’intervista, Papa Francesco ha giustificato i vescovi dicendo che l’Africa è "un caso a parte" perché lì l’omosessualità è vista come "qualcosa di brutto dal punto di vista culturale". Che ne pensa? Esiste una "eccezione africana"?
Certamente il contesto culturale conta e c’è molto lavoro da fare su questo fronte. Noi lo facciamo attraverso il dialogo, il confronto, l’advocacy. Ma i diritti umani sono principi universali a cui tutti gli Stati del mondo hanno scelto di aderire: dignità vuol dire dignità che ci si trovi in Africa, in Europa o in Australia.

Il movimento africano per i diritti civili trova supporto in Occidente?
Innanzitutto preferisco parlare di movimenti al plurale: condividiamo tutti lo stesso obiettivo, ma non siamo un blocco monolitico. Ci sono movimenti per la giustizia ambientale, femministi, per i diritti Lgbt, per la tutela dei migranti. Esistono intersezioni tra le diverse lotte, ma cambiano i contesti, le priorità, i metodi. Detto questo, collaboriamo costantemente con organizzazioni occidentali, come anche di altre parti del mondo, per scambiarci competenze, risorse ed esperienze. Non possiamo vedere l’Europa progredire da sola mentre noi restiamo indietro.

La Commissione africana per i diritti umani ha dichiarato che "l’orientamento sessuale non è un diritto riconosciuto esplicitamente" ed è "contrario ai valori africani".
La Commissione dipende dall’Unione africana, che ha una linea politica dettata dai governi degli Stati membri. Lo stesso succede anche alle Nazioni unite, le cui decisioni (o non decisioni) dipendono in fin dei conti dalla volontà politica dei governi. In Africa, come nel resto del mondo, lo spazio per la società civile si sta restringendo a causa della mancanza di risorse, ma anche di leggi ostili. Le associazioni vengono spesso accusate di diffamazione, eversione, addirittura terrorismo. Insomma, ancor prima di poter partecipare al dibattito dobbiamo lottare per il diritto a esistere e formare associazioni. Anche per questo è più che mai necessaria la collaborazione tra organizzazioni di paesi e continenti diversi.

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