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29 febbraio 2024
Processo contro Israele alla Corte internazionale di giustizia, convocazioni urgenti dell’Assemblea generale, proposte di risoluzione per il cessate il fuoco: mentre la guerra a Gaza infuria, c’è chi prova a rianimare il sistema delle Nazioni unite perché adempia al suo compito di difendere il diritto e la pace. E non è l’Occidente, spesso indicato come “padrone” delle istituzioni onusiane. Sono i paesi africani che, insieme a quelli arabi, si stanno sempre di più ritagliando un ruolo da protagonisti sulla scena internazionale.
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L’esempio più evidente del nuovo protagonismo africano è il caso mosso dal Sudafrica contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia per presunte violazioni della Convenzione sul genocidio durante l’offensiva su Gaza. La causa è stata aperta il 29 dicembre, quando la delegazione sudafricana ha depositato all’Aja il documento di accusa: 84 pagine, che elencano le prove di attacchi indiscriminati sulla popolazione e sulle infrastrutture civili, comprese scuole, campi profughi e ospedali, l’esodo forzato di centinaia di migliaia di persone, gli ostacoli posti al flusso di acqua, cibo e medicinali. Atti che, uniti a decine di dichiarazioni dei vertici politici e militari israeliani, dimostrerebbero un chiaro "intento genocidario", ovvero la volontà – riprendendo le parole della Convenzione – di "distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale".
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Sentite le parti in causa, il 26 gennaio la Corte ha giudicato plausibili le accuse e indicato le misure cautelari da implementare urgentemente nell’attesa della sentenza: a larghissima maggioranza, i 17 saggi hanno intimato a Israele di "adottare tutte le misure in suo potere" per impedire qualsiasi atto genocidario, "impedire e punire l’incitamento al genocidio", "consentire i servizi essenziali e l’assistenza umanitaria" e "garantire la conservazione delle prove relative alle accuse". Curiosamente, l’unica giudice a esprimere parere negativo su ogni misura è stata l’ugandese Julia Sebutinde, prima donna africana a sedere nella Corte, secondo cui il caso non è ammissibile perché non è stato dimostrato l’intento genocidario. Il governo ugandese, presidente di turno del Movimento dei Paesi non allineati, ha immediatamente preso le distanze dalle posizioni della giudice.
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Per la sentenza definitiva ci vorranno mesi, se non anni. Intanto, l’offensiva israeliana su Gaza continua imperterrita, lasciando inapplicate le misure indicate dalla Corte. È il paradosso della giustizia internazionale, che si pone al di sopra degli Stati ma non ha mezzi per far valere le proprie decisioni, se non la collaborazione degli Stati stessi. "Alcuni ci hanno detto di farci gli affari nostri – ha commentato Cyril Ramphosa, presidente della Repubblica del Sudafrica –. Noi però siamo convinti di essere al posto giusto. Conosciamo bene il dolore dell’espropriazione, della discriminazione, della violenza istituzionalizzata. Sappiamo cos’è l’apartheid. Per questo, non assisteremo passivamente mentre i crimini che ci sono stati inflitti in passato sono perpetrati altrove".
Sono a trazione africana anche i recenti tentativi di smuovere gli organi multilaterali delle Nazioni unite: due settimane dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, è stata la Mauritania, insieme alla Giordania, a chiedere la convocazione urgente dell’Assemblea generale Onu e proporre una risoluzione che chiedeva una "tregua umanitaria immediata, duratura e sostenuta" a Gaza. Dei 40 paesi firmatari, una dozzina erano africani. La risoluzione è poi passata con 121 voti a favore, 14 contrari e 44 astensioni, tra cui quella dell’Italia. Mentre l’Occidente si è spaccato in tre, l’Africa ha votato compattamente a favore, a eccezione di qualche astensione. Un copione simile si è ripetuto lo scorso dicembre, quando l’Egitto e la Mauritania, vista la paralisi del Consiglio di sicurezza, hanno sollecitato un’altra riunione d’emergenza dell’Assemblea generale, presentando una proposta di risoluzione per un "cessate il fuoco umanitario immediato". Anche in questo caso, l’Africa si è mostrata unita, a eccezione del voto negativo della Liberia e di qualche astensione e a differenza dell’Occidente, diviso tra voti contrari, favorevoli e astensioni (tra cui, ancora una volta, quella dell’Italia). La risoluzione è stata adottata con 153 voti a favore, ma non ha carattere vincolante.
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Chi può invece emettere decisioni che risultino obbligatorie per gli Stati è il Consiglio di sicurezza, che però si trova spesso paralizzato a causa del veto dei membri permanenti. Dal 7 ottobre gli Stati Uniti hanno bloccato tre proposte di risoluzione sulla guerra a Gaza. L’ultima, votata il 21 febbraio scorso, portava la firma dell’Algeria e chiedeva un "cessate il fuoco umanitario immediato". Il testo ha raccolto il sostegno di 13 dei 15 membri del Consiglio, scontrandosi però con il no decisivo di Washington e l’astensione di Londra.
I vertici dell’Unione africana, riuniti lo scorso febbraio ad Addis Abeba per la conferenza annuale, hanno celebrato queste iniziative: "Il diritto internazionale e l’etica stanno venendo ignorati, calpestati, disprezzati – ha dichiarato il presidente della Commissione Moussa Faki –. Il processo all’Aja dimostra l’impegno incrollabile dell’Africa verso quei valori e la decisione della Corte rappresenta una vittoria per il nostro continente". L’appuntamento è stato anche l’occasione per ribadire la volontà africana di contare sempre di più nei consessi internazionali: incassato l’ingresso dell’Unione africana nel G20, l’obiettivo è ottenere un seggio permanente all’interno del Consiglio di sicurezza Onu.
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