21 dicembre 2023
"Non siamo stati all’altezza della sfida". È suonata come un’ammissione di sconfitta la lettera con cui Craig Mokhiber, direttore dell’ufficio di New York dell’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni unite, ha comunicato lo scorso ottobre la decisione di lasciare l’incarico, denunciando l’immobilismo dell’Organizzazione di fronte alla strage dei civili a Gaza.
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Un simile allarme lo aveva lanciato lo scorso gennaio la vice-segretaria generale Amina Mohammed: "La pace è la missione principale delle Nazioni unite, la nostra ragion d’essere, e oggi questa missione è gravemente minacciata". Che il "mantenimento della pace e della sicurezza internazionale" sia lo scopo principale delle Nazioni unite lo dice il primo articolo dello statuto, firmato il 26 giugno 1945 a San Francisco.
A quasi 80 anni da allora, l’Onu ha raccolto l’adesione di quasi tutti i paesi del mondo (oggi sono 193 gli Stati membri), ma si trova ad affrontare il più alto numero di conflitti armati nella sua storia, come ha ammesso la stessa Mohammed. Una spia accesa che suggerisce di sottoporre la macchina Onu a un check-up approfondito.
Il primo componente da revisionare, per il ruolo centrale che gioca nella meccanica delle Nazioni unite, è il Consiglio di sicurezza, a cui l’articolo 24 dello statuto di San Francisco conferisce "la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale". È composto dai rappresentanti dei cinque membri permanenti (Stati Uniti, Cina, Russia, Francia e Regno Unito) e dei dieci non permanenti, eletti tra tutti gli Stati membri con un mandato di due anni.
L’articolo 24 dello statuto di San Francisco conferisce al Consiglio di sicurezza "la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale"
"Il Consiglio si riunisce quando sorgono gravi minacce per la sicurezza internazionale e tenta di risolverle con risoluzioni legalmente vincolanti", spiega a lavialibera Chiara Ruffa, professoressa di relazioni internazionali all’università Sciences Po di Parigi. Problema: i cinque membri permanenti dispongono del potere di veto, per cui basta che uno non sia d’accordo perché la risoluzione venga respinta, anche se tutti gli altri dovessero sostenerla.
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Questo strumento, utilizzato soprattutto da Russia e Stati Uniti, ha spesso impedito al Consiglio di intervenire per fermare i conflitti o evitarne l’escalation. È successo durante la Guerra fredda, e poi in Siria e Ucraina, fino alle ultime riunioni d’emergenza sulla situazione in Israele e Palestina, in cui il veto americano ha bloccato la risoluzione per il cessate il fuoco a Gaza. Un accordo è stato raggiunto il 15 novembre, ma il testo si limita a chiedere "pause umanitarie estese", e in ogni caso non ha impedito che la conta dei morti civili continuasse a salire.
Quando i veti non lo impediscono, il Consiglio può anche ricorrere alle operazioni di peacekeeping, con gli interventi dei celebri caschi blu. "L’intuizione è nata alla fine degli anni Quaranta dai diplomatici e i burocrati del segretariato, che hanno spinto per un’interpretazione creativa dello statuto dell’Onu", spiega Ruffa. Da allora sono stati approvati 71 interventi, tutti con il consenso del paese interessato.
Oggi sono attive 12 operazioni, che coinvolgono più di 63mila militari e 12mila civili. Tra le missioni principali, la protezione della popolazione civile dagli scontri armati, il controllo del rispetto delle frontiere e degli accordi post-bellici, lo sminamento e il disarmo, il monitoraggio delle elezioni e il supporto alle istituzioni locali. Delle operazioni di peacekeeping si ricordano spesso i fallimenti eclatanti, come quelli andati in scena in Ruanda nel 1994 e a Srebrenica, in Bosnia-Erzegovina, l’anno successivo, in cui la presenza dei caschi blu non riuscì a impedire due dei massacri più efferati della storia recente.
Oggi sono attive 12 operazioni di peacekeeping, che coinvolgono più di 63mila militari e 12mila civili. L’Italia è presente in Libano con 900 uomini
In realtà, dice Ruffa, "diversi studi mostrano che, mediamente, queste operazioni contribuiscono a salvare molte vite rispetto a situazioni di conflitto simili in cui non sono dispiegate". Un esempio è la missione Unifil nel sud del Libano, a cui l’Italia partecipa con quasi 900 uomini e senza la quale, sostiene la professoressa, gli scontri delle scorse settimane tra Hezbollah e l’esercito israeliano avrebbero portato a un’escalation molto più grave.
Insieme ad altri colleghi, Ruffa ha dedicato parte della sua attività di ricerca all’analisi dei fattori che contribuiscono al successo o al fallimento delle operazioni di peacekeeping. "Innanzitutto è determinante il numero: una presenza massiccia di militari ha un effetto deterrente. Ma conta anche la composizione: la diversità di nazionalità all’interno del contingente è sicuramente un fattore positivo, perché conferisce alla missione una forte legittimità e segnala che tutta la comunità internazionale è impegnata attivamente per mantenere la pace".
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La diversità diventa però un ostacolo quando sorgono discriminazioni: "Studiando le operazioni passate con composizione mista – continua la professoressa – abbiamo riscontrato come spesso i militari dei paesi del Sud del mondo venissero impiegati sul campo in operazioni rischiose e senza il supporto adeguato, mentre ai contingenti del Nord venivano affidate missioni di intelligence molto più specializzate. Questa "gerarchia razzializzata" può far emergere tensioni all’interno del personale e quindi compromettere il successo della missione".
Negli anni, le frequenti paralisi del Consiglio di sicurezza hanno spinto i diplomatici a mettere a punto nuovi strumenti per la promozione della pace, spesso sfidando la rigida divisione delle competenze tracciata dallo statuto. È il caso della risoluzione Uniting for peace del 1950, che permette all’Assemblea generale, l’organo che riunisce tutti gli Stati membri, di intervenire urgentemente in caso di minacce alla pace e alla sicurezza internazionale, solitamente prerogativa del Consiglio di sicurezza, e "formulare raccomandazioni per misure collettive, compreso l’uso della forza armata quando necessario".
Da allora, la formula Uniting for peace è stata invocata 11 volte, la prima durante la crisi di Suez del 1956. L’ultima invece risale allo scorso 12 dicembre, quando l’Assemblea generale ha adottato una risoluzione per un "cessate il fuoco umanitario immediato" a Gaza, senza però prevedere misure concrete per raggiungere l'obiettivo, come accaduto anche per le sei risoluzioni approvate con questa formula nell’ambito della guerra in Ucraina.
Lo scorso 12 dicembre l’Assemblea generale ha adottato una risoluzione per un "cessate il fuoco umanitario immediato" a Gaza, senza però prevedere misure concrete per raggiungere l'obiettivo
"Tramite questo meccanismo, l’Assemblea generale si sostituisce in un certo senso al Consiglio di sicurezza, ma nel limite dei suoi poteri di raccomandazione. Non può adottare atti con carattere vincolante, che risultino obbligatori per gli Stati membri", spiega a lavialibera Giuseppe Nesi, professore all’università di Trento, membro della Commissione del diritto internazionale delle Nazioni unite ed ex consigliere giuridico del presidente dell’Assemblea generale.
L’impegno delle Nazioni unite per la pace è anche quello di centinaia di mediatori e mediatrici che, lontani dai riflettori e dai saloni del Palazzo di vetro, aiutano le parti in conflitto a parlarsi per prevenire o porre fine ai combattimenti. Dal 2006, il segretariato generale coordina una rete di più di 200 esperti in mediazione e un team di otto consulenti senior, pronti a essere inviati in scenari di conflitto in 72 ore.
Nel 2019, anno a cui risalgono gli ultimi dati disponibili, sono stati registrati 116 interventi in 25 paesi diversi. Un contributo spesso dimenticato da chi denuncia l’irrilevanza delle Nazioni unite, come lamenta il professor Nesi: "Purtroppo, la soluzione di una controversia attraverso la mediazione non fa notizia. Certamente è migliorabile, ma l’Onu resta l’unico foro nel quale gli Stati trovano modo di parlare anche quando sono in conflitto".
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Il tema, dunque, è come rendere la macchina più efficiente. "C’è disperato bisogno di una riforma – dice la professoressa Ruffa –, che renda il Consiglio di sicurezza più rappresentativo degli equilibri demografici odierni e riveda il potere di veto. Io proporrei di abolirlo e passare a un sistema di voto a maggioranza qualificata, di due terzi o maggiore".
Proposte in questo senso sono già state avanzate, ma con scarso successo. Ha invece messo d’accordo tutti la (più modesta) risoluzione Veto initiative dell’aprile del 2022, che obbliga gli Stati che ricorrono al veto a giustificare la propria scelta di fronte all’Assemblea generale, senza però limitarne l’uso. Secondo Nesi, però, il cuore del problema è a monte: "Le Nazioni unite non sono un’entità astratta, sono espressione della volontà degli Stati membri. Se i governi non sono disposti a dialogare tra loro, a “dare braccia” all’impegno per la pace, quell’impegno resta incompiuto".
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