1 maggio 2024
Che gli umani, soprattutto quelli di genere maschile, indulgano ad aggredirsi non solo verbalmente ma anche fisicamente è del tutto un’ovvietà. Succede anche, assai spesso, che le aggressioni si generino in contesti in cui gli interessati si trovano su sponde opposte: schieramenti diversi, gruppi diversi, famiglie diverse, età diverse. Immaginiamo di trovarci in una società africana tradizionale, dove un uomo per sposarsi deve raccogliere dai suoi parenti un certo numero di capi di bestiame (bovini o ovini) e farlo pervenire alla famiglia della futura sposa. È inevitabile che tra il marito e i fratelli della sposa affiorino motivi di tensione e che questi motivi non siano circoscritti alla consegna del bestiame (in ordine alla sua qualità, per esempio), ma trovino una pluralità di occasioni per riemergere e indurre i cognati a trasformare la tensione in conflitto. Con tutti i cognati, potenzialmente aggressivi, che si trovano in un villaggio o in villaggi vicini, è lecito pensare che quella società si preoccupi fortemente delle lacerazioni che possono determinarsi nel tessuto sociale.
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Tutto ciò è abbastanza ovvio. Un po’ meno ovvia è la soluzione inventata nell’Africa tradizionale: costruire un modello di comportamento tale per cui, quando due cognati si incontrano, anziché salutarsi educatamente e poi continuare nelle loro faccende, si aggrediscono verbalmente con gli insulti peggiori, anche in assenza di motivi di lite contingenti. Non si viene alle mani, si viene però alle parole, e questo è un comportamento non solo previsto e tollerato, ma anche ingiunto. Guai se i due cognati non si insultassero: se non lo facessero ci sarebbe da dubitare del loro rapporto. Un rapporto sano tra cognati prevede scambi di insulti reciproci. Anziché preoccuparsi la gente dirà che quelli sono buoni cognati. Oltre tutto, i loro insulti grevi e immaginifici fanno anche ridere a crepapelle chi vi assiste e chi vi partecipa.
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