16 maggio 2024
Si faceva chiamare Francesco Averna, presentandosi come un medico chirurgo laureato all’università Bocconi di Milano. Peccato che alla Bocconi non esista alcuna facoltà di medicina. Era la falsa identità social acquisita dal super latitante Matteo Messina Denaro che, a questo nome, aveva aperto un profilo sia su Instagram sia su Facebook.
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Due account che, stando alle prime ricostruzioni, gli servivano per comunicare con persone a lui vicine riducendo il pericolo di essere intercettato. Ma soprattutto per tenersi aggiornato su quanto succedeva intorno a lui, monitorando i profili delle attività commerciali di Campobello di Mazara, nel trapanese, dove si nascondeva il covo del boss. Profili ora al vaglio dei carabinieri del Raggruppamento operativo speciale e della procura di Palermo per ricostruire la rete che ha consentito a Denaro una latitanza trentennale.
Utilizzando tecniche di Open source intelligence (Osint), cioè di ricerca, analisi e raccolta di informazioni provenienti da fonti aperte, è possibile avere un quadro della vita social del capo di Cosa nostra, morto lo scorso settembre a causa di un tumore al colon. Attraverso l’utilizzo di un indirizzo e-mail e di un numero di cellulare, Matteo Messina Denaro avrebbe creato entrambe le identità virtuali nel febbraio del 2020: tre anni prima del suo arresto, avvenuto il 16 gennaio 2023 alla clinica La Maddalena di Palermo, dove il boss era in cura sfruttando carta d’identità, tessera sanitaria e codice fiscale di un prestanome, Andrea Bonafede. Nome e cognome usati online li aveva, invece, inventati di sana pianta scegliendo come immagine del profilo la foto in primo piano di un cagnolino bianco, con una bandana blu stretta intorno al collo.
Matteo Messina Denaro si pone come figura di interposizione tra la vecchia e la nuova generazione di esponenti della criminalità organizzata. Significativi, a questo proposito, sono i like lasciati dal boss: ristoranti, panifici, pub, bar e negozi geograficamente a lui vicini. Per lui, la Rete era un modo per rimanere aggiornato sui suoi interessi e sul territorio che abitava
Su Instagram, Francesco Averna seguiva 447 profili e aveva 63 follower. Mentre su Facebook contava appena quattro contatti. In apparenza dei canali inutilizzati, dove non è pubblicamente visibile alcun contenuto, ma che – secondo gli investigatori – venivano usati da Messina Denaro per la messaggistica privata. Del resto, non è la prima volta che le ricerche sul super latitante toccano i social e in particolare Facebook. Già nel 2013 si sospettava che il boss potesse averlo sfruttato per comunicare con la sorella Anna Patrizia, nascosta dietro lo pseudonimo di un’imperatrice romana, Lucilla. Eppure, è dai suoi interessi che emerge un certo modo di considerare lo spazio digitale. Il boss seguiva quasi solo donne, per lo più del mondo dello spettacolo, tra cui diverse attrici porno.
Un comportamento che non stupisce Marcello Ravveduto, docente dell’Università di Salerno e ricercatore, esperto di mafie e cyberspazio. “Matteo Messina Denaro si pone come figura di interposizione tra la vecchia e la nuova generazione di esponenti della criminalità organizzata”, spiega Ravveduto a lavialibera. Significativi, a questo proposito, sono i like lasciati dal boss: ristoranti, panifici, pub, bar e negozi geograficamente a lui vicini. Qualche esempio: Casa Azul Café, Ciuri bistrot, Insonnia Discopub, Monnalisa beach e Panificio Totò. Tutte realtà che probabilmente Messina Denaro frequentava anche durante la latitanza e non voleva perdere d’occhio. “Per lui – precisa Ravveduto –, la Rete era un modo per rimanere aggiornato sui suoi interessi e sul territorio che abitava”.
Un modus operandi che ha caratterizzato tutta la prima epoca social, come documenta una ricerca condotta da Ravveduto e pubblicata da Franco Angeli nel maggio del 2023. Lo studio ha preso in esame un’enorme quantità di contenuti pubblicati online dal 2012 al 2022, mettendo in evidenza come la criminalità organizzata occupi “lo spazio digitale come se fosse uno spazio fisico, senza soluzione di continuità tra immaginario e realtà”. Il modo in cui l’ha fatto però è cambiato nel tempo. La prima fase è stata quella della sperimentazione. “I mafiosi – prosegue il ricercatore – hanno cominciato a sfruttare i social in maniera ludica, commettendo anche degli errori clamorosi”. È il caso, per esempio, del selfie del boss di Mondragone (in Campania) Augusto La Torre pubblicato su Facebook dal figlio nel 2018, che ha spinto la Direzione investigativa antimafia ad avviare delle indagini sulla famiglia.
Certo, le leggerezze non mancano neppure oggi e a commetterle non sono soltanto i criminali italiani. Basti pensare a Christopher Vincent Kinahan, leader del cosiddetto cartello Kinahan, gruppo criminale organizzato nato in Irlanda, a cui farebbero capo decine di omicidi e un giro di affari nel traffico di armi e droga del valore complessivo di un miliardo di dollari. Secondo un'indagine condotta dal sito di giornalismo investigativo Bellingcat, a partire dal 2019 un account di nome Christopher Kinahan, associato proprio al boss in persona, ha pubblicato con disinvoltura recensioni su Google, fornendo un quadro dei suoi spostamenti internazionali: dalla Turchia alla Spagna, passando per Hong Kong e il sud Africa.
Ma le ultime leve della criminalità usano i nuovi media in maniera più consapevole. Oggi i giovani boss non condividono la loro posizione per errore, ma per dimostrare di avere un controllo su un determinato territorio, sfidando – in certi casi – i clan rivali. Il cambio di passo lo ha avviato Emanuele Sibillo, baby boss a capo della paranza dei bambini, ucciso nel 2015 all’età di 20 anni. È stato lui il primo a sfruttare la geolocalizzazione per segnalare dove si trovava, e come si muoveva, nell'hinterland partenopeo, in modo da intimidire i nemici. Ed è stato sempre lui ad usare i social per costruire intorno alla sua figura un culto, che dura tutt’oggi. L’hashtag #es17, la sigla che Sibillo si era tatuato sul cuore e che corrispondeva alla lettera S dell’alfabeto italiano ma anche al numero della disgrazia nella smorfia napoletana, è legato a più di mille post sia su Instagram sia su TikTok: la maggior parte, foto dello stesso Sibillo accompagnate da dichiarazioni d’amore e rispetto fraterno. “Emanuele – prosegue Ravveduto – è stato il primo a sfruttare le reti sociali in maniera simbolica, creando una comunità virtuale, ma è nel 2014 che si verifica la trasformazione irreversibile, segnata da un episodio di passaggio”.
Ravveduto: "La mafia non è più quella di una volta"
Succede quando la vittima di un agguato al Rione Traiano (Napoli) posta le foto delle proprie ferite, anticipando la vendetta e dando inizio a un cortocircuito tra reale e virtuale: il vissuto criminale condiziona l’identità digitale che, a sua volta, è influenzata dalla realtà criminale. Ravveduto la definisce “interrealtà mafiosa” e caratterizza la fase dominata dalla "Google generation criminale", cioè i nati tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, che sfruttano i social in maniera intuitiva. La diffusione di TikTok sta aprendo una nuova stagione, dove ogni media ha un pubblico ben preciso. “Facebook è destinato alla generazione che guarda la tv generalista. Instagram è l’equivalente della rivista patinata, mentre TikTok permette il racconto della vita in diretta, proprio come in un reality”. In questo contesto emergono anche gli influencer delle mafie: i giovani rampolli delle organizzazioni criminali che raccontano la loro vita. Una quotidianità fatta di viaggi, lusso, abiti firmati, e belle auto, come quella dei ricchi qualsiasi. Star di TikTok era, ad esempio, Crescenzo Marino, arrestato nel 2022 con l’accusa di far parte del clan fondato da suo papà e suo zio. Sul social, Marino aveva oltre 40 mila follower e postava regolarmente i video in cui mostrava la sua vita da nababbo: giri in Ferrari a Parigi, una casa che affaccia in spiaggia a Mykonos, cene in ristoranti stellati e amicizie con cantanti trap.
Tra le mafie italiane, la più social è sempre stata la camorra, anche per la sua natura. “Ogni volta che c’è un profondo legame con la strada, il racconto social diventa più esplicito”, precisa il ricercatore. È il caso non solo della camorra, ma anche della mafia catanese, palermitana e foggiana. A comparire di meno sono, invece, gli ‘ndranghetisti, soprattutto del versante jonico. Ma non si sottraggono al racconto online i figli e le figlie di alcune famiglie di ‘ndrangheta, adesso residenti nel nord Italia. Un esempio sono le giovani donne della ‘ndrina di Cutro Grande Aracri, presenti in Emilia Romagna e in Lombardia.
Nonostante le differenze, l’uso dei nuovi media da parte delle nostre organizzazioni criminali ha un tratto comune, conclude Ravveduto: “Non c’è una regia che controlla e decide i contenuti pubblicabili. È sempre il singolo utente ad agire. Non esiste, come invece accade in Messico con il cartello di Jalisco Nueva Generación, un’attività centralizzata di propaganda tesa a rafforzare l’immagine pubblica dell’organizzazione criminale. Anche quando si genera una faida, i soggetti coinvolti agiscono singolarmente, sebbene in maniera congiunta e coordinata. La logica è quella dello shitstorm. Non è il clan che organizza l’attacco virtuale ma è la cerchia che si mobilita intorno al leader moltiplicando la potenza di fuoco”.
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