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20 febbraio 2025
Alleanze tra bande locali, mafie tradizionali e politica, narcotraffico, rischio di infiltrazioni nelle energie rinnovabili: “Chi dice che la Sardegna è un’isola felice è troppo ottimista”, avverte Luigi Patronaggio, procuratore generale di Cagliari. Un passato da magistrato antimafia a Palermo, poi alla guida della procura di Agrigento, a lavialibera spiega cosa hanno svelato le indagini degli ultimi anni sulla presenza della criminalità organizzata nell’isola. E sulle politiche del governo dice: “Non basta reprimere, bisogna capire le esigenze di chi reclama”.
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Procuratore, per anni si è detto che in Sardegna non c’è la mafia. È così?
"In Sardegna non c'è una mafia indigena, ma le bande storiche si sono riciclate nel narcotraffico e hanno ramificazioni in segmenti della politica e della massoneria deviata"Luigi Patronaggio - procuratore generale di Cagliari
In Sardegna non c'è una mafia indigena, nel senso di organizzazioni che replicano le modalità tipiche delle mafie del sud Italia. Però ci sono due grossi rischi. Il primo è legato alle storiche bande specializzate nei sequestri di persona, che oggi si sono riciclate: fanno rapine a portavalori e caveau, ma soprattutto narcotraffico, sia coltivazione di marijuana che scambio tra droghe leggere e droghe pesanti. Sono bande organizzate che non hanno le strutture tipiche familistiche delle mafie del Sud, ma operano con modalità che destano grandissimo allarme sociale. L’altro pericolo è che le mafie tradizionali del Sud Italia vengano a investire in Sardegna. Storicamente i settori di maggiore interesse sono quello turistico, alberghiero, della ristorazione, ma c’è il rischio che intercettino anche l’enorme potenziale economico dato dagli investimenti nelle energie alternative. Infine, osserviamo anche casi di alleanze tra le mafie tradizionali e la criminalità organizzata sarda. Connubio agevolato dalla compresenza, nelle carceri di massima sicurezza dell’isola, delle rispettive rappresentanze, ma anche dal fatto che i familiari di alcuni reclusi di trasferiscono qui ed esportano quindi i loro modelli di criminalità. Insomma, quando si dice che la Sardegna è un’isola felice si è troppo ottimisti.
A proposito di energie rinnovabili, vede il rischio che la criminalità organizzata possa accaparrarsi i fondi pubblici destinati a incentivare la transizione, come quelli previsti dal Pnrr?
Sì, e proprio per questo abbiamo sottoscritto un protocollo con la Prefettura e con la Guardia di finanza per attenzionare questo possibile problema. Il fatto che una regione storicamente povera di imprenditoria locale e risorse diventi uno dei principali centri per le energie alternative, non solo a livello nazionale, ma europeo, deve destare un’attenzione particolare.
Di recente ha evocato l’ipotesi che anche per le bande sarde possa valere la definizione di associazione mafiosa prevista dall’articolo 416 bis. Può spiegarci meglio?
Abbiamo precedenti che mostrano come queste bande storiche hanno delle ramificazioni nella pubblica amministrazione e hanno stretto patti indicibili anche con segmenti della massoneria deviata. Un caso recente è l’inchiesta Monte Nuovo (l’indagine avviata nel 2023 dalla Direzione distrettuale antimafia di Cagliari e condotta dai carabinieri del Ros che vede 34 imputati per associazione mafiosa, ndr). Questo desta preoccupazione, perché questo tipo di alleanza tra criminalità organizzata, segmenti dell’amministrazione, della politica e della massoneria deviata ricalca i meccanismi che riscontriamo da sempre nelle mafie tradizionali.
Lei ha chiesto al governo che la competenza sulle indagini per rapine con armi pesanti venga trasferita alle procure distrettuali antimafia. Perché?
Abbiamo inviato questa proposta ai ministeri della Giustizia e dell'Interno perché ci accorgiamo che questi fenomeni criminali, che mettono in pericolo la sicurezza e l'incolumità pubbliche, hanno ramificazioni e regie uniche. Se noi spezzettiamo le indagini nelle varie procure si perde il bandolo della matassa. Per esempio, quando in Sicilia o in Calabria si registra un danneggiamento, un incendio, una bomba in un’impresa, per prima cosa si verifica se la matrice sia mafiosa e scatta immediatamente la competenza della procura distrettuale antimafia. Questo perché quei fenomeni sono reati spia, cioè in quelle regioni è storicamente, sociologicamente e criminologicamente accertato che si tratti di meccanismi di criminalità organizzata. In Sardegna questi episodi, come anche le intimidazioni verso i pubblici amministratori, non vengono collegati in un’ottica unitaria, ma parcellizzati. E questa frammentazione rappresenta oggettivamente uno svantaggio nella conduzione delle indagini.
Parliamo di carcere: i dati e la cronaca recente mostrano che anche in Sardegna il sistema penitenziario è sotto stress. Possiamo parlare di emergenza?
La situazione in Sardegna è critica, ma non ai livelli di altre regioni d'Italia. Certo, ci sono delle carceri, come quella di Uta, dove registriamo con una certa frequenza e preoccupazione sia attacchi nei confronti della polizia penitenziaria sia atti di autolesionismo tra i detenuti, ma i numeri sono decisamente più bassi rispetto a quelli di altre regioni.
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Allargando lo sguardo al livello nazionale, ritiene che le recenti scelte del governo in materia di giustizia penale vadano nella giusta direzione?
"In questo momento c'è grande attenzione verso politiche securitarie. Ma non basta reprimere, bisogna anche capire le esigenze della piazza, dei detenuti, delle fasce che reclamano"
In questo momento in Italia c'è grande attenzione verso politiche securitarie, che prescindono dal fatto che il problema di sicurezza sia reale o percepito. Ora, la risposta securitaria non può essere l'unica risposta ai problemi del Paese, perché è giusto che non avvengano violenze nelle piazze e nelle carceri. Però bisogna anche avere la capacità di leggere i fenomeni sociali. Non basta soltanto reprimere, occorre anche capire le esigenze della piazza, dei detenuti, delle fasce che reclamano.
I rapporti tra politica e magistratura sono tesissimi. Possiamo parlare di scontro?
Che vi sia uno scontro in atto è fuori dubbio e l’ha riconosciuto anche il presidente della Corte costituzionale. Non è soltanto un problema italiano, ma di tutto l'Occidente democratico, e nasce dal rifiuto del controllo di legittimità da parte di chi non è eletto. Oggi la vulgata internazionale è “mi ha eletto il popolo quindi posso fare quello che voglio”. In realtà, la democrazia non funziona così: non esiste soltanto la legittimazione popolare, esistono anche altri tipi di controlli di legalità. E la politica, in Europa come nell’America trumpiana, mal digerisce questo controllo, quindi ciò che generalmente tenta di fare è mettere il pubblico ministero sotto le dipendenze dell’esecutivo e introdurre la discrezionalità dell’azione penale (cioè la possibilità per la politica di indicare alle procure quali reati perseguire in via prioritaria, ndr). Questo permetterebbe alla politica di agire in modo libero, senza intralci. Ma la democrazia si basa su pesi e contrappesi, senza i quali l’ago della bilancia si sposterebbe tutto da una parte.
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Vede margini per abbassare il livello dello scontro?
Credo per esempio che oggi ci siano le condizioni per ritornare sull’immunità parlamentare (prima della riforma approvata nel 1993 sull’onda di Tangentopoli era necessario il voto della Camera di appartenenza per autorizzare l’avvio delle indagini nei confronti di parlamentari e non solo, come avviene oggi, per l'arresto o l'utilizzo di intercettazioni; ora Forza Italia propone di ripristinare quel meccanismo, ndr). I padri costituenti avevano visto nell'autorizzazione al procedere un meccanismo per stabilire un confine tra politica e magistratura, che però è saltato nella stagione di Mani pulite, forse con troppa leggerezza. È chiaro che non è la stessa cosa iniziare un’azione penale nei confronti di un ladro del supermercato o del presidente del Consiglio. Per cui non credo che la reintroduzione dell’immunità parlamentare sia un vulnus all'uguaglianza, anzi è uno dei possibili meccanismi di composizione del conflitto.
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