Roma, 1° giugno 1997. Il presidente della Camera Luciano Violante durante un intervento a Montecitorio (Archivio Camera dei deputati)
Roma, 1° giugno 1997. Il presidente della Camera Luciano Violante durante un intervento a Montecitorio (Archivio Camera dei deputati)

Trent'anni di Libera. Luciano Violante: "La lotta alla mafia doveva essere lotta per i diritti"

Luciano Violante, già presidente della commissione Antimafia e poi della Camera dei deputati, diede impulso alla costituzione della rete di associazioni che poi è diventata Libera: "Il contrasto alla mafia non doveva essere fatto soltanto da processi e carcere, ma dalla lotta per i diritti"

Andrea Giambartolomei

Andrea GiambartolomeiRedattore lavialibera

1 marzo 2025

Magistrato prima, poi professore di diritto e politico del Partito comunista italiano, presidente della commissione parlamentare antimafia negli anni delle stragi di Capaci e via D’Amelio e poi presidente della Camera dei deputati, Luciano Violante è stato tra i promotori della rete che dagli anni Novanta ha unito associazioni antimafia e del sociale.

Presidente Violante, com’è cominciato il suo impegno contro la mafia?

In seguito all’omicidio di Pio La Torre e Rosario Di Salvo, il 30 aprile 1982, come responsabile delle politiche giudiziarie del Partito comunista italiano, venni mandato in Sicilia a organizzare la lotta politica alla mafia. Lì incontrai una generazione giovane e capace, persone che poi divennero consiglieri regionali, deputati. Poi sono stato capogruppo del Pci in commissione antimafia nella decima legislatura (1987-1992) e ne sono diventato il presidente in quella successiva.

Oltre alle indagini sui legami tra mafia, imprenditoria e politica, come impostò i lavori della commissione parlamentare antimafia di cui fu presidente?

Bisognava fare un lavoro di educazione. Ci accorgevamo che gli insegnanti non sapevano quasi niente del tema. Per questo, già con la commissione antimafia, nel 1994, avevamo preparato una pubblicazione che raccoglieva i documenti più significativi per spiegare cosa fossero Cosa nostra, la ’ndrangheta, la camorra e via dicendo. Temevamo se ne parlasse in termini sbagliati, in chiave antimeridionale (erano gli anni di crescita della Lega Nord di Umberto Bossi, ndr). Ci fu richiesto da quasi 500 scuole.

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Anche da quell’esperienza politica nacque l’intuizione di unire i tanti movimenti antimafia sorti in Italia.

Sì. Dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, la mafia divenne un’emergenza nazionale ed erano sorte molte associazioni antimafia, ma non si parlavano tra di loro, anzi a volte erano in conflitto, e non c’era un’azione forte. Bisognava mettere queste esperienze in rete. Allora, nella primavera del 1994, ero vicepresidente della Camera e con i miei collaboratori – Tiziana Strabello ed Emanuele Braghiero – abbiamo cominciato a organizzare le prime riunioni invitando le associazioni che potevano dare un contributo. Ricordo anche che ci siamo rivolti a una società di comunicazione con sede a Modena che ci consigliò il nome Libera con il logo colorato. Siccome gli impegni politici non mi permettevano di seguire l’associazione, all’inizio se ne occupò Pietro Folena. Nel 1996, dopo le elezioni politiche, diventai presidente della Camera e non ebbi più tempo per seguire le attività, ma c’era don Luigi Ciotti.

Da torinesi, vi conoscevate da tempo?

Lo avevo incontrato quando, da magistrato, aderivo a Magistratura democratica. Inoltre mia moglie, Giulia De Marco, era giudice minorile e Ciotti si occupava di minori abbandonati. Insomma, avevamo avuto modo di conoscerci. Dobbiamo essere grati a Luigi per quanto fatto.

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Quale caratteristica volevate dare a questa rete di associazioni?

La lotta alla mafia non doveva essere fatta soltanto da processi e carcere, ma di lotta per i diritti. Poi volevamo sensibilizzare, volevamo che si capisse come non fosse soltanto una questione meridionale, ma nazionale.

Dall’esperienza in Commissione antimafia nacque anche una delle prime grandi iniziative di Libera.

Sì, il riutilizzo dei beni confiscati. Era emerso che bisognava destinare queste proprietà alla collettività: non soltanto dare le auto sequestrate alle forze di polizia, ma ad esempio fare delle scuole nelle ville dei boss. Bisognava uscire dall’idea che la lotta antimafia fosse soltanto una lotta tra guardie e ladri, ma che in realtà fosse utile ai cittadini.

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