Don Pino Puglisi insieme ai giovani della sua parrocchia. Foto: Vivi/Libera
Don Pino Puglisi insieme ai giovani della sua parrocchia. Foto: Vivi/Libera

Preti uccisi dalle mafie. Storie di chi per amore del suo popolo non ha taciuto

Hanno condannato pubblicamente le mafie e per questo sono stati uccisi dalla criminalità organizzata. A 30 anni dall'omicidio di don Cesare Boschin, ricordiamo tutti i preti che hanno pagato con la vita il loro impegno

Natalie Sclippa

Natalie SclippaRedattrice lavialibera

28 marzo 2025

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Nella notte tra il 29 e il 30 marzo del 1995 don Cesare Boschin venne legato e ucciso sul suo letto nella canonica di Borgo Montello, una frazione di Latina. Si era trasferito dal Veneto e aveva iniziato a seguire i movimenti intorno alla discarica vicina alla sua parrocchia, in cui credeva si occultassero bidoni di rifiuti tossici. Cominciò ad annotare nelle sue agende il via vai dei camion, soprattutto di notte, mentre i suoi fedeli iniziavano ad ammalarsi. Gli approfondimenti di don Cesare non piacevano alla famiglia Schiavone, fondatrice del clan camorristico dei Casalesi, che in quelle zone possedeva terreni e pensava di agire indisturbata. Le indagini vennero chiuse in soli quattro mesi: gli inquirenti passarono dalla pista di una rapina finita male alla frequentazione degli ambienti gay. Di camorra nessuno parlò mai. A trent’anni dal suo omicidio, il caso rimane aperto, senza verità. 

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Come don Boschin, sono numerosi i preti e gli ecclesiastici uccisi dalle mafie: chi ha condannato il racket durante le omelie, chi non si è fatto intimidire, chi è rimasto al fianco dei contadini, chi voleva creare comunità in zone in cui a comandare era il crimine organizzato. Storie come queste, dall’Ottocento ai giorni nostri, raccontano di uomini di Chiesa che non si sono voltati dall’altra parte. 

Contro pizzo e omertà, per aiutare i fedeli

Alcuni omicidi sono molto risalenti nel tempo. Bisogna tornare fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, nelle campagne calabresi e siciliane per trovare i primi esempi di parroci che si sono rifiutati di pagare il pizzo e impegnati nelle lotte contadine contro i feudatari, vennero messi a tacere a colpi di pistola o accoltellati. 

Antonio Polimeni era il parroco di Ortì, una frazione collinare del comune di Reggio Calabria, chiamata il “balcone sullo Stretto”, visto che da lì è possibile vedere lo stretto di Messina e anche l’Etna e le Eolie. Nel 1860 cominciò ad avere problemi con Domenico Chirico, genero di Francesco Viteresi, perché il prete avrebbe dovuto pagare una tassa sulla contribuzione fondiaria. Visto che non era la prima volta che accadevano episodi simili – Chirico aveva già ricevuto del denaro dal parroco –, don Polimeni non accettò e venne minacciato dal giovane. Saputo ciò che era avvenuto, l’altro sacerdote del paese, don Giorgio Fallara scrisse al vescovo e andò a denunciare agli organi di polizia. Due anni dopo l’8 ottobre del 1862, mentre si trovavano insieme in località Torre, vennero raggiunti entrambi da alcuni colpi di fucile. 

L’8 ottobre del 1862, don Antonio Polimeni e don Giorgio Fallara furono uccisi con dei colpi di fucile mentre si trovavano insieme in località Torre. Don Antonio si era rifiutato di pagare ed era stato minacciato e don Giorgio aveva denunciato tutto al vescovo e alla polizia

Anche a Giorgio Gennaro le prepotenze non piacevano. Sacerdote palermitano, iniziò a denunciare pubblicamente gli affari che la mafia stava tentando di fare gestendo alcune rendite ecclesiastiche. La sua lotta non piacque e il 16 febbraio del 1916 fu assassinato in borgata Ciaculli, nel capoluogo siciliano. Mandanti della spedizione punitiva furono Salvatore e Giuseppe Greco, per conto dell’Alta Maffia dei Ciaciulli.

In quegli anni, furono diversi i sacerdoti che vennero uccisi per questioni legate alla gestione delle terre e del miglioramento delle condizioni di vita delle persone. 

Davanti alla Chiesa Madre di San Cataldo, paese nell’altopiano nisseno dove si estende un’antica area mineraria, il 16 agosto 1910 venne ucciso da due colpi di revolver all’addome don Filippo Di Forti. Era amministratore della cooperativa di consumo e segretario della cassa agraria. Sebbene non si conoscano esecutori e mandanti, la pista mafiosa rimane la più accreditata.

Don Italo Calabrò, pioniere dell'antimafia sociale

Sempre in provincia di Caltanissetta, il 28 giugno 1919, mentre gli occhi del mondo erano rivolti alla firma del trattato di Versailles, l’arciprete di Resuttano Costantino Stella venne accoltellato davanti a casa sua e morì diciotto giorni dopo. Durante la sua vita si era speso per migliorare la vita dei contadini, istituendo la cassa rusale e la cooperativa di consumo, in modo che anche le persone più potere potessero comprare i beni di prima necessità a prezzi calmierati. Queste attività non piacquero alle famiglie mafiose locali, che lo misero a tacere per sempre.

Vicino alla cooperativa di consumo di Gibellina, in provincia di Trapani, fu freddato don Stefano Caronia. Legato agli insegnamenti di don Luigi Sturzo, nei primi anni del Novecento fu uno dei promotori dell’istituzione della cooperativa agricola locale, a favore della popolazione e contro i grandi feudatari. Tre colpi di rivoltella non gli lasciarono scampo, il 17 novembre del 1920. 

Anche quello di don Gaetano Millunzi è un omicidio rimasto impunito. Assassinato il 13 settembre 1920 a colpi di Lupara vicino a Monreale, in provincia di Palermo, aveva condotto degli studi sulla gestione dell’acqua e fondò la cassa rurale del Paese, con lo scopo di constrastare usura e così sostenere le attività di contadini e artigiani. Anche su questa morte si staglia la lunga ombra della mafia. 

Con gli ultimi, un’alternativa pagata con la vita

Ci sono poi due figure molto conosciute, assassinate nei primi anni Novanta, che sono diventati simboli di una Chiesa che sfida la criminalità organizzata: don Pino Puglisi a Brancaccio, quartiere di Palermo, e don Peppe Diana a Casal di Principe, in provincia di Caserta.

Era il 15 settembre 1993 quando don Pino Puglisi venne freddato davanti al portone di casa dalla mafia, il giorno del suo compleanno. Tre anni prima era diventato parroco a San Gaetano, a Brancaccio, allora controllato dai fratelli Graviano, capimafia legati al boss Leoluca Bagarella. Puglisi si spese per creare luoghi di incontro per i ragazzi del quartiere, cercando di non farli entrare nella rete criminale, e professando il perdono per i mafiosi. Un atteggiamento che infastidì: dopo telefonate anonime, minacce ai suoi collaboratori e alcuni avvertimenti attraverso atti incediari, i killer Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza per conto dei Graviano misero fine alla vita del parroco, che capito cosa stava per succedere, disse: “Me lo aspettavo”. 

Due documenti inediti raccontano l'impegno di don Peppe Diana contro la camorra

“La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi”Don Peppe Diana

A Casal di Principe, negli stessi anni, don Peppe Diana denunciò pubblicamente la camorra e la sua dittatura armata, nel documento in cui invitò la popolazione a non abbassare la testa davanti alla violenza, sottolineando: "Per amore del mio popolo non tacerò”. Don Diana descrisse la camorra “una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana”. Mandò un messaggio chiaro anche alle istituzioni: “La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi”. Venne freddato pochi minuti prima di celebrare messa, il giorno del suo onomastico, il 19 marzo 1994. 

Dobbiamo spostarci in avanti negli anni e andare in Sardegna per raccontare di don Graziano Muntoni, che alla vigilia di Natale del 1998, a pochi passi dalla chiesa di Orgosolo dove stava per celebrare messa, fu centrato in pieno petto da un colpo di fucile. Con un passato da insegnante di musica e attivo nella pro loco, era diventato prete a quarant’anni. Denunciava banditismo e omertà, rivolgendosi soprattutto ai giovani. Gesti che la criminalità non poteva sopportare. 

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