19 marzo 2024
Il 19 marzo 1994 viene ucciso don Peppe Diana, parroco di Casal di Principe. Un omicidio che chiude un anno di attacchi alla Chiesa da parte delle mafie, seguiti all’anatema di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi di Agrigento: le bombe alle chiese romane, l’uccisione di don Pino Puglisi e infine quella di don Peppe. Un esempio di una Chiesa che si contrappone con i fatti al potere e alla cultura mafiosa, ma anche di come da una morte possano nascere tanti frutti.
Se qualcosa è cambiato è merito della coscienza civile
“A me non importa sapere chi è Dio. Mi importa sapere da che parte sta”. Parole provocatorie quelle di don Peppe Diana, pronunciate durante un funerale, uno dei tanti, troppi, che doveva celebrare in quella terra insanguinata dalla violenza camorrista. Dio era sicuramente al suo fianco alle 7.25 del 19 marzo 1994, mentre nella sua parrocchia di San Nicola stava per celebrare la messa. Era il suo onomastico e gli amici gli avevano dato appuntamento più tardi per festeggiarlo.
“A me non importa sapere chi è Dio. Mi importa sapere da che parte sta”, disse don Peppe Diana durante un funerale
“Chi è don Peppe?”, una voce interrompe i suoi pensieri mentre, con gli abiti liturgici, percorre il corridoio che dalla sagrestia porta in chiesa. “Sono io”. Una risposta che ricorda quella di don Pino Puglisi, “vi aspettavo”. Poi cinque colpi di pistola, tutti al volto, come a voler far tacere ancor di più chi con coraggio tre anni prima aveva gridato contro la camorra “per amore del mio popolo non tacerò”. Aveva 36 anni e dal 1989 era parroco a Casal di Principe, il suo paese. Impegnatissimo con i giovani, era capo scout dell’Agesci, poi assistente dell’associazione e responsabile regionale dei Foulard blanc, gli scout in servizio nei pellegrinaggi a Lourdes.
Vicino concretamente alle persone più fragili, ai disabili, agli immigrati, tra i primi ad aprire la porta della parrocchia ai “fratelli africani” e alle donne vittime di tratta e prostituzione. Sacerdote fin nel più profondo, non aveva paura di esporsi e di pronunciare il nome “camorra” e di accusare. Lo faceva in pubblico e negli articoli che pubblicava sul mensile Lo Spettro. “La camorra – denunciava – chiama ‘famiglia’ un clan organizzato per scopi delittuosi, in cui è legge la fedeltà assoluta, è esclusa qualunque espressione di autonomia, è considerata tradimento, degno di morte, non solo la defezione, ma anche la conversione all’onestà. La camorra usa tutti i mezzi per estendere e consolidare tale tipo di famiglia, strumentalizzando perfino i sacramenti. La camorra – aggiungeva con una forte critica anche a parte della Chiesa – pretende di avere una sua religiosità, riuscendo a volte a ingannare, oltre che i fedeli, anche sprovveduti o ingenui pastori di anime”. Parole che evocavano, rafforzandole, quelle del Documento contro il fenomeno della camorra del luglio 1982 della Conferenza episcopale campana.
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Documento che nella prima pagina aveva già quella citazione di Isaia, “Per amore del mio popolo, non tacerò” che diventò il titolo, nel Natale 1991, di quello di don Peppe e degli altri parroci della Forania di Casal di Principe. Il 21 luglio di quell’anno a San Cipriano d’Aversa, nel corso di una sparatoria tra gruppi camorristi, viene ucciso il ventenne Angelo Riccardo, muratore e Testimone di Geova, colpito “per caso” mentre transita in auto.
Don Peppe non sta in silenzio. E domenica fuori dalle chiese di Casal di Principe e San Cipriano d’Aversa viene distribuito un durissimo volantino dal titolo “Basta con la dittatura armata della camorra”. A firmarlo sono le comunità parrocchiali di San Nicola e Santa Croce, la comunità La Roccia e il mensile Lo Spettro. Una presa di posizione che colpisce. Forte e nuova. Che arriva fino a Roma. Pochi giorni dopo il prefetto di Caserta, Corrado Catenacci, porta personalmente i parroci firmatari del volantino un messaggio di solidarietà del ministro dell’Interno, Vincenzo Scotti.
E arrivano anche fatti concreti. Il 29 settembre vengono sciolti per infiltrazione mafiosa i comuni casertani di Casal di Principe, Casapesenna e Mondragone. A Natale il famoso documento dei parroci della Forania "Per amore del mio popolo". Due paginette che hanno fatto paura alla camorra, che hanno cambiato una terra, che hanno segnato la vita e la morte di una persona, di un sacerdote, ma anche di tante altre persone di questa terra.
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“La Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana”. Poi un netto passaggio sulla politica. “È oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi”.
Non meno chiare sono le parole rivolte alla comunità ecclesiale. “Le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una ‘ministerialità’ di liberazione, di promozione umana e di servizio. Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili”.
E le richieste sono precise. “Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie e in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo ‘profetico’ affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili… Il fenomeno della camorra ci interroga in maniera perentoria sul nostro modo di essere Chiesa; oggi, in Campania, ci sfida a essere una vera contrapposizione, un’autentica proposta di civiltà, a essere non solo credenti, ma credibili”.
Le stesse parole trovate nell’agenda del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia quattro anni prima. Denuncia e analisi delle cause, nelle parole di don Peppe. “Dove è assente lo Stato fiorisce la camorra. Dove c’è mancanza di regole, di diritto – rispondeva in un’intervista a Lo Spettro del gennaio 1992 –, si affermano il non diritto e la sopraffazione. Bisogna risalire alle cause della camorra per sanare la radice che è marcia.
Una Chiesa diversamente impegnata su questo fronte potrebbe fare molto. Dovremmo testimoniare di più una Chiesa di servizio ai poveri, agli ultimi, dove regnano povertà, emarginazione, disoccupazione e disagio è facile che la mala pianta della camorra nasca e si sviluppi”. E ancora: “Come pastori ci sentiamo le sentinelle del gregge e, se non sempre siamo stati vigili e attenti, stavolta il coraggio della profezia e la coscienza profonda di essere ‘lievito nella pasta’ ci impongono di non tacere. Ai politici vecchi e nuovi diciamo: 'Non improvvisate più, non è possibile governare senza programmi, senza una vera scuola di politica. Ai giovani lanciamo l’invito di farsi avanti, di far sentire la propria voce e partecipare al dialogo culturale, politico e civile della vita comunale. Invitiamo infine i camorristi a tenersi in disparte, a non inquinare e affossare ancora una volta questo nostro caro paese, che ormai ha bisogno solo di Resurrezione'”.
"Invitiamo i camorristi a tenersi in disparte, a non inquinare e affossare ancora una volta questo nostro caro paese, che ormai ha bisogno solo di Resurrezione", diceva don Peppe Diana
Pochi giorni prima di essere ucciso lanciava un forte appello: “Se la camorra ha assassinato il nostro Paese, ‘noi’ lo si deve far risorgere, bisogna risalire sui tetti a riannunciare la parola di Vita”. Parole che i boss non potevano accettare. Don Peppe doveva morire “come esempio”. Dopo calunnie e fango, i processi hanno confermato la responsabilità della camorra.
Determinante la testimonianza del fotografo Augusto Di Meo, amico di don Peppe. Era andato in parrocchia per fargli gli auguri e dargli l’appuntamento per offrirgli la colazione. Mentre usciva vide tutto, andò dai carabinieri e raccontò, contribuendo in maniera determinante alle condanne. Una scelta immediata pagata pesantemente, con anni di paura e di emarginazione. A distanza di anni, Di Meo non ha ancora ottenuto il riconoscimento ufficiale di testimone di giustizia.
La vita non è facile per chi non ha accettato il silenzio. Ma lui non ha cambiato idea. “Andrei ancora a testimoniare e non solo perché don Peppe era un amico”. La storia in questa terra sta davvero cambiando, grazie a convinti “partigiani del bene” come Valerio Taglione, scout con don Peppe, tra i fondatori della Scuola di pace e del Comitato don Diana, che purtroppo ci ha lasciato troppo presto l’8 maggio 2020, ma dopo aver seminato e fatto crescere ottimi frutti insieme a tanti amici di don Peppe.
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Anche in anni molto difficili. Lo ha più volte riconosciuto Federico Cafiero de Raho, ex procuratore nazionale antimafia e primo magistrato ad accorrere quel 19 marzo. “Quando arrivai nella parrocchia quello che mi colpì maggiormente fu che la morte di un sacerdote non aveva provocato l’accorrere di persone”. Parole che evocano un’immagine negativa. “La piazzetta davanti alla chiesa era totalmente vuota, lo ricordo benissimo, in maniera nitidissima. Anche le imposte di tutte le case erano chiuse. Sembrava il far west, quando dopo un omicidio nessuno vuole essere coinvolto e si chiude in casa. Così era allora Casal di Principe”.
Il magistrato fa un racconto di quei mesi. “Era il periodo in cui i casalesi giravano in corteo in auto per il paese coi kalashnikov fuori dai finestrini e non trovavano alcun ostacolo. Avevano informazioni sulle nostre azioni al punto che una volta fecero un omicidio subito dopo che noi ce ne eravamo andati”. Un’atmosfera di paura che era emersa pochi mesi prima, quando dopo un esposto anonimo la procura decise di convocare tutti i parroci della Forania di Casal di Principe.
“Era un esposto nel quale si parlava di un clima di timore sorto dopo il documento dei parroci”. Da dicembre 1993 tutti i sacerdoti vennero ascoltati. “Così conobbi don Peppe, indirettamente, dai suoi documenti e dalle parole dei parroci. C’era un’atmosfera di timore, dei segnali che non si riuscivano a percepire. Da quell’indagine, però, non emerse nulla se non che il territorio era fortemente condizionato”.
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Ma dopo l’omicidio tutto appare subito più chiaro. “Ricostruii che don Peppe era un sacerdote che nelle omelie era capace di rimproverare apertamente i camorristi e i loro familiari, con interventi dal fortissimo contenuto educativo. Un uomo straordinario, davvero speciale”. Proprio per questo andava colpito. Anche dopo morto, quando partì l’operazione fango che non è riuscita a scalfirne la memoria. Davvero un seme che muore e dà molto frutto. Una verità che il procuratore ha toccato con mano.
“È come se quei territori avessero avuto bisogno della morte di un uomo buono per risvegliarsi. Casal di Principe si sta riprendendo la sua dignità come se la gente cominciasse a riflettere sul cambiamento. Don Peppe, quella lucina, è poi diventata un riflettore”. Certo la lotta è ancora lunga. Ma ormai queste non sono più le terre di gomorra ma quelle di don Peppe Diana. Davvero se “è morto un prete è nato un popolo”.
Cafiero de Raho: "Casal di Principe si sta riprendendo la sua dignità come se la gente cominciasse a riflettere sul cambiamento. E don Peppe, quella lucina, è diventata un riflettore"
Davvero “qui la camorra ha perso”, come si legge sulla grande scritta all’ingresso del caseificio della cooperativa Le terre di don Peppe Diana, che opera sui terreni confiscati ai clan a Castel Volturno. E sono davvero tante le cooperative e le associazioni che utilizzano i beni tolti alla camorra, tornati beni comuni, che danno lavoro vero e pulito o operano per le persone più fragili.
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Perché come afferma don Luigi Ciotti “casalesi è il nome di un popolo e non di un clan” e “don Peppino era un testimone non solo di idee ma del Vangelo, capace di saldare la terra con il cielo. La sua fedeltà al Vangelo era piena di amore e lui l’ha pagata con la vita”. Ma, insiste, “don Peppino è ancora vivo, i suoi sogni, i suoi progetti devono continuare sulle nostre gambe perché la vita vinca sempre. La strada è ancora lunga e il nostro don Peppino ci spinge. Dacci una mano. E chiediamo anche a Dio di darci una bella pedata”.
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