
Le armi bruciano il pianeta



1 novembre 2025
La retorica bellicista si fonda spesso su finzioni. Quelle evocate per giustificare il piano di riarmo europeo spaziano dal presunto effetto deterrente di maggiori armamenti – una regola la cui validità storica resta tutta da dimostrare – alla pretesa di considerare “sostenibile” l’industria della difesa. Negli ultimi mesi, tanto la Commissione europea quanto il governo italiano hanno progressivamente ridotto la trasparenza su dati e decisioni, oscurando il modo in cui l’Unione si prepara oggi a diventare un attore militare a tutti gli effetti.

Il programma Rearm Europe, presto ribattezzato Readiness-2030, “prontezza”, nasce con l’obiettivo dichiarato di rafforzare la difesa comune e di "scoraggiare" Vladimir Putin. "Le nostre illusioni sono state infrante – ha dichiarato il marzo scorso la presidente Ursula von der Leyen al Parlamento europeo –. In questa epoca più pericolosa, l’Europa deve fare un passo avanti".
Più esplicito, il segretario della Nato Mark Rutte, lo scorso 25 giugno, ha elogiato Donald Trump per aver "costretto" canadesi ed europei a spendere di più in armamenti, fino a raggiungere la soglia del cinque per cento del Pil. "Dobbiamo proteggerci dai nostri avversari – ha dichiarato Rutte –, ma [questo traguardo] è giusto anche per equità con gli Usa. [Sostenere la difesa] non può più toccare solo ai contribuenti americani".
Il linguaggio dell’urgenza usato dall’Europa serve a giustificare una mobilitazione di risorse senza precedenti, che ridefinisce le priorità politiche ed economiche del continente. In questo numero de lavialibera non ci interroghiamo sull’opportunità di queste scelte, ma sul loro prezzo per la democrazia e per la trasparenza.
In nome della sicurezza, Bruxelles ha di fatto rinnegato la campagna contro le mine antiuomo, restituendo ai singoli Stati la possibilità di tornare a usarle. Allo stesso tempo, ha modificato la struttura del bilancio comunitario, rendendo quasi impossibile capire da quali voci saranno sottratte le risorse per alimentare le spese militari. Per mobilitare risorse private – perché quelle pubbliche non bastano – ha concesso agli operatori finanziari di definire “sostenibili” i fondi che investono nell’industria della difesa. Tacendo sul fatto che già in tempi di pace il comparto militare mondiale produce circa il 5,5 per cento delle emissioni totali di CO2. Sono solo alcuni esempi, e l’Italia ripete lo stesso schema. Meno accessibile il Documento della difesa 2025-2027, mentre in parlamento è avviata la modifica della legge 185, che da oltre trent’anni garantisce trasparenza sugli accordi di esportazione e importazione di armi.
Lo scarto tra retoriche del riarmo e disponibilità reale ad accogliere la guerra è testimoniato dai risultati di un sondaggio Censis di questa estate, forse dimenticato troppo in fretta. Di fronte all’ipotesi di un conflitto solo il 16 per cento delle persone tra i 18 e i 45 anni si è dichiarata pronta a combattere. Il 39 per cento si è detta pacifista e quindi protesterebbe, il 26 per cento preferirebbe delegare la difesa a soldati professionisti e a mercenari stranieri, mentre il 19 per cento "confessa senza remore che sceglierebbe la fuga per evitare il fronte e il dramma del conflitto". Insomma, una fotografia ben lontana dall’Europa "pronta alla guerra entro il 2030" immaginata da Ursula von der Leyen.
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Mine antiuomo, piani sanitari segreti e finanziamenti "sostenibili": tutti i trucchi con cui l'Europa ci porta alla guerra
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