
Le armi bruciano il pianeta



1 novembre 2025
Quella che fino a qualche mese fa era una possibilità, oggi è sempre più vicina alla realtà: cinque Stati membri dell’Unione europea (Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia e Finlandia) stanno muovendo passi concreti per dotarsi di mine antiuomo da disporre al confine con Russia e Bielorussia. E quella che a luglio, quando abbiamo contattato per la prima volta la Commissione europea, era mancanza di chiarezza (leggi qui l'articolo), oggi è certezza: Bruxelles non impedirà che i prestiti che ha messo a disposizione dei 27 paesi nell’ambito del piano di riarmo possano essere utilizzati anche per questo scopo. Un evidente cortocircuito per l’Unione, che continua a rivendicare il ruolo di "secondo donatore al mondo" dopo gli Usa per operazioni di sminamento e assistenza alle vittime e a perseguire, almeno sulla carta, l’obiettivo di "liberare il mondo dalle mine antiuomo entro il 2025".
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La scorsa primavera, i ministeri della Difesa dei cinque Stati hanno annunciato il ritiro dalla Convenzione di Ottawa del 1997, che vieta l’uso, lo stoccaggio, la produzione, la vendita e la distribuzione di mine antiuomo. Il motivo della messa al bando, a cui hanno aderito 166 paesi al mondo, è semplice: questi ordigni, che vengono disseminati nel terreno perché esplodano al passaggio dei soldati nemici, in realtà uccidono civili nell’80 per cento dei casi, anche decenni dopo la fine dei conflitti. "Ma viviamo in tempi folli in cui a chi governa non interessano i fatti", lamenta Kasia Derlicka- Rosenbauer, vicedirettrice della Campagna internazionale per il bando delle mine antiuomo (Icblm). Così, nei mesi successivi all’annuncio, i cinque parlamenti hanno confermato il ritiro, che diventerà effettivo a gennaio, e governi e produttori hanno iniziato a muovere i primi passi: a inizio ottobre, le forze armate finlandesi hanno annunciato l’avvio di programmi di addestramento sull’utilizzo di questi ordigni, mentre rappresentanti degli altri quattro governi si sono riuniti in Lettonia per coordinare la produzione, contando sulla disponibilità di diverse aziende, sia pubbliche sia private, che hanno manifestato interesse.
In parallelo, i cinque Stati membri hanno chiesto e ottenuto da Bruxelles accesso ai due strumenti di assistenza finanziaria eccezionale messi in campo nell’ambito del piano di riarmo europeo: i prestiti per acquisti congiunti di armamenti previsti dal programma Safe (Security action for Europe, 150 miliardi di euro in totale) e la clausola di salvaguardia nazionale, che permette di bilancio pensati per limitare il debito pubblico, misura che dovrebbe liberare 650 miliardi. Ad oggi, nessun documento ufficiale esclude le mine antipersona dal campo di applicazione dei due strumenti. Anzi, il regolamento Safe cita esplicitamente tra il materiale bellico acquistabile quello relativo alla "contromobilità ", termine che indica proprio gli ostacoli volti a impedire o limitare la capacità di movimento dell’esercito nemico e potrebbe quindi includere le mine.
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Lo scorso luglio, contattata da lavialibera, una portavoce della Commissione europea si era limitata a "constatare " la decisione dei cinque Stati membri e non aveva chiarito se questi avrebbero potuto finanziare l’acquisto degli ordigni attraverso i due strumenti del piano di riarmo. Ora, interrogata nuovamente, dichiara che "il regolamento Safe definisce le condizioni e le procedure in base alle quali è concessa l’assistenza finanziaria" e che "la Commissione valuterà i piani nazionali (i programmi con cui gli Stati membri intendono impiegare i prestiti, ndr) sulla base di questi criteri". In altre parole, le mine antiuomo non verranno escluse esplicitamente.
"Un atteggiamento schizofrenico – commenta Derlicka-Rosenbauer –. Come si può con una mano dare soldi per lo sminamento e l’assistenza alle vittime e con l’altra permettere, o magari contribuire a finanziare, la proliferazione di queste armi?". Una contraddizione resa plasticamente dalle parole con cui, lo scorso 23 ottobre, i delegati Ue si sono rivolti alla prima commissione dell’Assemblea generale Onu: "Siamo profondamente preoccupati per il continuo utilizzo delle mine antiuomo. L’Unione europea è determinata a sostenere e promuovere gli obiettivi della Convenzione di messa al bando, esempio di successo della diplomazia multilaterale e strumento importante ed efficace di disarmo umanitario ".
Ora Icblm, insignita del premio Nobel per la pace nel 1997, promette di "mantenere la pressione" su Bruxelles, e l’impegno arriva anche dall’europarlamento: "Sono sconcertata, chiederò alla Commissione una risposta nero su bianco su questo tema – dice a lavialibera Cecilia Strada, ex presidente di Emergency, eletta nelle liste del Partito democratico –. Purtroppo, anche nel campo progressista, c’è chi pensa che si possa tornare indietro rispetto alle conquiste del diritto internazionale e umanitario perché “siamo in una situazione eccezionale”. Ma i trattati sono stati pensati esattamente per proteggere la popolazione civile in contesti di guerra, proprio per questo dobbiamo tenerceli". Ora anche la Repubblica Ceca, che confina solo con paesi membri dell’Ue, sta valutando di ritirarsi dalla Convenzione, "obsoleta" secondo il premier Petr Fiala.
Tra i cinque Stati che l’hanno già fatto, la Polonia è quello che sembra avere più fretta di minare il confine. Lo scorso settembre si è aggiudicata in via provvisoria quasi 44 miliardi dei prestiti Safe per le armi, la fetta più grossa dei 150 totali. A lavialibera, il ministero della Difesa di Varsavia ha confermato che intende destinare parte del finanziamento allo "Scudo orientale", l’imponente progetto di fortificazione della frontiera est iniziato l’anno scorso che prevede la costruzione o il rafforzamento di ostacoli naturali, come paludi, foreste, dighe e scarpate, e artificiali, inclusi sistemi anti-drone.
Lo scorso marzo, il viceministro della Difesa Paweł Bejda ha annunciato alla radio polacca Rmf24 l’intenzione di includere nel progetto anche le mine: "Non abbiamo scelta: la situazione al confine è grave. Non ne abbiamo ancora, ma siamo in grado di produrle". Varsavia ha anche affermato di aver raggiunto un "accordo preliminare" con la Banca europea degli investimenti perché finanzi lo Scudo orientale con un miliardo di euro. Contattato da lavialibera, l’istituto, le cui policy vietano di investire in armi e munizioni, non ha confermato né smentito.
"Ciò che ci allarma ancora di più – continua Derlicka-Rosenbauer – sono le voci secondo cui dietro la scelta della Polonia ci sarebbe anche l’intenzione di colpire i migranti che tentano di attraversare il confine". Il governo ha smentito, "ma è certo che se si mette a minare la frontiera, a saltare in aria saranno queste povere persone che non c’entrano niente con la guerra", dice Strada.
A testimoniare il clima ostile verso le persone straniere in movimento, lo scorso marzo la Polonia ha sospeso il diritto d’asilo per chi arriva al confine dalla Bielorussia, in risposta alla "strumentalizzazione dei migranti come armi" da parte di Minsk. "Il fatto che queste persone vengano spinte verso i nostri confini, con enormi sofferenze, è una ragione in più per proteggerle – continua l’eurodeputata –. Invece sta diventando la giustificazione per colpirle con ogni mezzo".
Contro la sospensione del diritto d’asilo e la revoca del bando sulle mine si è mobilitata la sezione polacca di Amnesty International, invano. "Come altre organizzazioni non siamo stati ammessi alle audizioni del comitato che ha valutato il ritiro dalla Convenzione, non c’è stato alcun dibattito – lamenta Adam Ploszka, responsabile dell’advocacy –. Ora proveremo a rivolgerci alla Commissione europea, ma non siamo molto ottimisti". Il clima non è diverso in Finlandia: "Chiunque metta in dubbio scelte in materia di “difesa” viene ignorato, se non accusato di vendere il Paese alla Russia – dice Laura Lodenius, direttrice dell’Unione finlandese per la pace, tra le poche organizzazioni a opporsi al ritorno delle mine –. È quasi impossibile fare domande, figurarsi dirsi contrari".
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