5 gennaio 2021
Avevano febbre, tosse, mal di testa e dolori alle ossa. "Non preoccupatevi. Banale influenza", gli dicevano. Invece era Covid-19. Ma per sapere la verità i detenuti hanno dovuto insistere: protestare, battendo forte pentole e posate sulle sbarre. Solo così hanno ottenuto i tamponi e scoperto che il coronavirus si stava diffondendo di cella in cella da giorni. È quanto successo nel carcere di Tolmezzo, stando a due esposti presentati ai tribunali di Roma e Bologna, che denunciano le lacune nella gestione dell'emergenza sanitaria all'interno dell'istituto penitenziario. Non solo i ritardi nelle diagnosi e nei ricoveri, ma anche il mancato isolamento dei positivi, una volta individuati. Lacune che a metà novembre hanno trasformato un carcere di massima sicurezza in un focolaio Covid: il più grande negli istituti di pena italiani. La situazione è rientrata alla normalità da qualche settimana, come documenta una nota del Garante dei detenuti e delle persone private della libertà personale che al 18 dicembre conta nella struttura 18 positivi. Ma il bilancio finale è stato di 30 agenti di polizia penitenziaria e 155 reclusi (su 200) contagiati, più una vittima, deceduta nel reparto di rianimazione dell'ospedale di Trieste il 12 dicembre.
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Un epilogo che avrebbe precise responsabilità da parte dell'amministrazione penitenziaria e dell'Azienda sanitaria universitaria friuli centrale (Asufc), cui spetta la gestione dell'assistenza sanitaria nel carcere di Tolmezzo. A entrambe lavialibera ha rivolto le stesse domande: è vero, come sostengono detenuti e rispettivi legali, che i tamponi sono stati effettuati con diversi giorni di ritardo rispetto alla comparsa dei primi sintomi e solo dopo insistenti richieste da parte dei detenuti stessi? I positivi al Covid-19 sono stati isolati dalle altre persone presenti all'interno della struttura carceraria? L'ospedalizzazione di chi ne aveva bisogno è stata tempestiva? Domande cui la direzione del carcere di Tolmezzo non ha risposto. Mentre la direzione dell'azienda sanitaria ha fatto sapere che "al momento non intende rispondere".
Ufficialmente tutto ha inizio il 13 novembre, quando l'esito di un tampone svela l'ingresso del coronavirus nella casa circondariale di Tolmezzo, in provincia di Udine: una struttura particolare perché ospita soprattutto soggetti all'alta sicurezza o al 41 bis. Nel primo caso, persone condannate o accusate di associazione di stampo mafioso, ma anche di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, sequestro a scopo di estorsione, tratta di essere umani, e di alcuni gravi reati sessuali. Nel secondo, chi ricopre ruoli apicali all'interno delle organizzazioni criminali. Questi ultimi sono collocati in celle singole e hanno contatti limitati sia con gli altri reclusi sia con l'esterno, tanto che qualcuno ha definito il 41 bis "il luogo più sicuro dal contagio Covid". Eppure, è proprio al 41 bis che si trova il primo positivo individuato nel carcere di Tolmezzo. Non si tratta di un caso isolato. Molti detenuti manifestano gli stessi sintomi e in pochi giorni si scopre che sui 16 presenti al 41 bis in 12 sono affetti dal coronavirus. Come sia iniziato il contagio, considerate le restrizioni sociali cui si è sottoposti al regime di carcere duro, rimane da chiarire.
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Ma il problema riguarda anche l'alta sicurezza, dove il 16 novembre si registrano una decina di positivi accertati. Gli esposti parlano di "prevenzione fallimentare", "mancanza di protocolli" e di "rispetto delle regole minime di base". Qualche esempio: "La polizia penitenziaria — si legge — utilizzava la mascherina in modo scorretto, lasciando il naso scoperto, le docce erano promiscue e i consigli di disciplina venivano svolti in salette minuscole con una pluralità di persone (...)". Significativo è il caso del telefono: nell'alta sicurezza ce n'è solo uno e veniva usato da tutti i detenuti, senza che fosse sanificato tra una chiamata e l'altra. Scandalosa viene, poi, definita la gestione medica all'interno della struttura. Se il primo tampone è stato effettuato solo il 13 novembre, secondo la ricostruzione degli avvocati, alcuni detenuti avrebbero avuto febbre e tosse già tra il 7 e l'8 novembre.
Nell'alta sicurezza c'è solo un telefono e veniva usato da tutti i detenuti, senza che fosse sanificato tra una chiamata e l'altra
Nonostante questo, hanno continuato a svolgere una vita normale all'interno dell'istituto, frequentando gli spazi comuni e presentandosi ai colloqui con i difensori, perché "l'area medica li aveva rassicurati che si trattava di una banale influenza di stagione". "Anche io ho rischiato di essere contagiata", racconta Sara Peresson, uno dei tre legali che hanno presentato gli esposti. Peresson denuncia quanto successo non solo come avvocato di alcuni detenuti, ma anche come parte in causa di una vicenda che considera "assurda". "Per una settimana — prosegue — ho continuato a frequentare cinque soggetti positivi che manifestavano sintomi. Gli ho ripetutamente chiesto se fossero certi si trattasse di una semplice influenza e mi hanno risposto che questo era quanto gli era stato detto dai medici".
Una versione che non convince più nel momento in cui il primo tampone risulta positivo. A quel punto sarebbero stati i reclusi a insistere per essere testati in quanto "consapevoli di avere tutti gli stessi sintomi" e vista "l'assenza di iniziativa da parte della direzione e dell'area sanitaria" della struttura. Insistenze e proteste che, denunciano detenuti e legali, sarebbero state necessarie anche per l'ospedalizzazione di chi ne aveva bisogno. Compreso l'uomo, poi deceduto, fratello del boss della 'ndrangheta Franco Coco Trovato. Si chiamava Mario Coco Trovato, aveva 71 anni ed era stato condannato a 15 anni e mezzo per infiltrazioni mafiose nel territorio di Lecco. Ad aprile aveva chiesto la detenzione domiciliare per motivi di salute legati al rischio da contagio Covid, ma l'istanza non era stata accolta.
Un'altra lacuna, che viene definita come la più "clamorosa delle mancanze di coloro che hanno la responsabilità della gestione del carcere", riguarda il mancato isolamento dei positivi: nelle stesse celle hanno continuato a convivere malati Covid-19 e no. Solo "a distanza di giorni e giorni" i contagiati sono stati separati dagli altri detenuti. Ma ormai era troppo tardi, "Tolmezzo si era trasformata in un lazzaretto". Un comportamento "incurante delle regole e delle misure di prevenzione" che, concludono gli esposti, ha messo a repentaglio "non solo i detenuti, ma anche il personale e gli operatori penitenziari, gli insegnanti, gli avvocati e tutti gli utenti che per ragioni di lavoro accedono al carcere nonché tutte le famiglie di queste persone".
Di gestione fallimentare parla anche Francesco Santin, referente friulano di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. Più cauta Daniela de Robert, membro dell'Autorità Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale: "Non bisogna creare allarmismi — precisa —. Il carcere di Tolmezzo, così come il sistema carcerario nel suo complesso, fino ad ora ha tenuto". Ma la vicenda punta i riflettori sulla principale criticità che continua a essere riscontrata in molti istituti, cioè "l'assenza di luoghi ad hoc per l'isolamento dei positivi". Un'esigenza che in molti casi è difficile da soddisfare considerato il persistente sovraffollamento delle carceri italiane, a cui si affiancano precarie condizioni igieniche. Il 18 dicembre erano 53.002 le persone presenti negli istituti di pena del nostro Paese a fronte di una capienza regolamentare di circa 50mila posti, che scendono a 47mila se si tiene conto delle sezioni provvissoriamente chiuse. Una situazione che ha portato Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale, a portare avanti uno sciopero della fame (ora sospeso), mentre la senatrice a vita Liliana Segre e il Garante dei detenuti Mauro Palma hanno lanciato un appello per inserire l'ambiente carcerario tra i luoghi di prioritaria attenzione nella campagna di vaccinazione.
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Alcune misure per liberare spazi e tutelare le persone più a rischio sono state previste sia nel decreto Cura Italia sia nel decreto Ristori. "Ma le leggi continuano a essere molto timide e il numero di detenuti all'interno delle strutture carcerarie scende molto lentamente", sostiene de Robert. Una lentezza che, per la Garante, vede la "forte responsabilità di chi ha voluto rallentare quelle che sono state definite scarcerazioni facili e, invece, facili non lo erano affatto".
C'è una forte responsabilità di chi ha voluto rallentare quelle che sono state definite scarcerazioni facili e, invece, facili non lo erano affatto Daniela de Robert - Autorità Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personali
Il riferimento è alla controversa lista dei 498 detenuti al 41bis o in alta sicurezza cui sarebbero stati concessi i domiciliari per motivi di salute durante la prima ondata pandemica. I dati ottenuti da lavialibera dal Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) raccontano un'altra storia: l’8 giugno 2020 si contavano 223 persone uscite dai reparti di alta sicurezza per cause espressamente legate al Covid, di cui 121 definitivi e 102 a titolo cautelare. Solo quattro erano i reclusi al 41bis. Alla data del 23 settembre "i detenuti del circuito alta sicurezza e quelli sottoposti al regime del 41-bis rientrati negli istituti penitenziari risultano essere 112", ha riferito in un'audizione in Parlamento il ministro della Giustizia pentastellato Alfonso Bonafede.
A farne le spese sono soprattutto le persone più fragili, dice de Robert. Una fragilità che può essere sanitaria e/o sociale. La prima interessa chi soffre di patologie che abbinate al Covid-19 potrebbero diventare letali. Una questione non di poco conto, considerata la fotografia della popolazione carceraria scattata dall'ultimo rapporto di Antigone: sempre più anziana e con problemi di salute che negli istituti di pena sono molto più diffusi (13 per cento dei detenuti) rispetto alla popolazione generale (7 per cento). Stando ai dati del ministero della Salute, il 67,5 per cento dei ristretti soffre di almeno una patologia. Al primo posto ci sono i disturbi psichici (41,3, per cento) seguiti da quelli del tratto gastrointestinale (14,5 per cento) e le malattie infettive (11,5 per cento).
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Socialmente fragili sono, invece, i senza fissa dimora e "tutti coloro che se avessero un avvocato o dei punti di riferimento non finirebbero in cella". A questo proposito agli inizi di novembre è intervenuto Giovanni Salvi. Il procuratore generale della Cassazione ha fatto presente che almeno duemila detenuti avrebbero diritto alla detenzione domiciliare, ma non possono esercitarlo perché privi di un "reale domicilio". Il che, ha scritto Salvi, oltre a "rappresentare un’inaccettabile discriminazione" su base economica e sociale, "comporta il paradosso che proprio i soggetti marginali e meno pericolosi vengono esclusi di fatto dai benefici". Mentre il sistema carceri si preclude la possibilità di "consentire il distanziamento sociale senza che questo comporti la scarcerazione di persone maggiormente pericolose".
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