"Libia", un "fumetto" che ti prosciuga dentro

Francesca Mannocchi e Gianluca Costantini compongono un sodalizio perfetto per un lavoro di graphic journalism prezioso, che racconta in sei capitoli le evoluzioni recenti di una nazione incerta, ma soprattutto di un popolo

Piero Ferrante

Piero FerranteRedattore Gruppo Abele

28 gennaio 2020

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Sono tre pagine. Arrivano a un certo punto. Non c’è nemmeno indicato quale sia, questo punto. Libia è così, non ha numeri di riferimento. Ti scompiglia e ti confonde. Come un vento che non puoi scansare. Tre pagine che quando ne esci, da quel vento di parole e immagini, ti accorgi che ti ha percosso non solo in faccia, seccandoti gli occhi: ti ha proprio fatto sventolare le viscere e ti ha prosciugato tutto pure dentro.

Tre pagine, Francesca Mannocchi che entra nel centro di detenzione di Zawiya, 1200 prigionieri stipati a terra, un poliziotto che le passa una mascherina e lei che dice: "Come si fa a incontrare il volto di centinaia di uomini innocenti detenuti in quelle condizioni senza alcun motivo e coprirsi la faccia. Ma come si fa? In un gesto dire loro: tu puzzi. Tu scappi dalla fame, dalla guerra, dal terrorismo, ti hanno arrestato senza motivo… e tu, puzzi". Se un libro avesse un’anima, l’anima di questo libro sarebbe questa. Qui, in queste pagine, in queste parole, c’è il filo rosso di Libia, pubblicato Oscar Ink Mondadori, sceneggiato da Mannocchi e illustrato da Gianluca Costantini. Un sodalizio perfetto per un lavoro di graphic journalism prezioso, che racconta in sei capitoli le evoluzioni recenti di una nazione incerta, ma soprattutto di un popolo che, nonostante i rovesciamenti politici (o forse anche in virtù di quelli), cammina da un decennio sull’orlo del precipizio della storia.

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Mannocchi e Costantini cesellano piccole storie disilluse che sono una geopolitica umile dell’Africa contemporanea, delle sue tante rivoluzioni tradite, delle sue guerre civili, delle sue migrazioni interne. Sono la sintesi, in carne, delle complessità e delle contraddizioni della Libia. La Libia, punto d’arrivo e di partenza, deserto e porto, speranza di libertà e sua negazione. La Libia, terra di 23 centri di detenzione ufficiali con dentro cinquemila detenuti. Ma in Libia l’ufficialità è solo il tentativo di camuffamento della verità. Come il numero delle vittime di un decennio di guerra, sempre incerto e mai ufficiale.

Le contraddizioni della Libia sono le contraddizioni dell’Italia, le contraddizioni dell’Europa, le contraddizioni dell’Occidente intero: mondi non assolti di cui la Libia è la coscienza sporca e che con la Libia scendono a patti. Mondi che pagano la propria percezione di sicurezza con il sangue dei vinti.

Alla fine ciascuna di queste storie, che trovano voce nella voce di Francesca Mannocchi e nuova carne nei tratteggi di Gianluca Costantini, non sono che le mele marcescenti di un albero che muore dalle radici, affogato in pozzanghere di piogge acide e veleni. Come Hussein, figlio della dittatura di Gheddafi, scampato al massacro di Abu Salim; come Amir l’eritreo, sepolto vivo a Zawiya, dove la vita e la morte si scambiano le maschere in un gioco cinico; come Isaa il pescatore di uomini, responsabile della Guardia costiera di Garabulli, che senza più mezzi governativi soccorre i migranti con la barca da pesca di famiglia. Loro, grotte buie per cuore e occhi accesi di paura. Loro, piccoli emblemi che se ci punti contro la luce sanno emettere solo bagliori neri. E noi, da questa parte, usiamo la notte dei tempi come scusa per non vederli.

Da lavialibera n° 1 gennaio/febbraio 2020

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