29 aprile 2021
Legare il permesso di soggiorno al lavoro da rider non è facile. Lo sa bene Omar (nome di fantasia), 34enne al servizio di una ditta di giorno e ciclofattorino di sera, che non si è visto riconoscere i soldi ricevuti da Glovo per ottenere il permesso di soggiorno di lungo periodo. Attività "non esercitata abitualmente", si legge nel provvedimento della Questura di Torino che motiva la decisione con il carattere occasionale della prestazione. "Penalizzazione assurda", commenta Federico Freni, avvocato del ragazzo, pronto a fare ricorso al tribunale amministrativo regionale.
"La scelta – precisa – è in contrasto con la legge che prevede come unico requisito economico necessario per avere il permesso di soggiorno di lungo periodo la disponibilità di un reddito non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale (circa 6mila euro, ndr), indipendentemente dalla tipologia di lavoro. Ma anche con la ratio dei decreti approvvati nell'ultimo periodo, che si propongono di aiutare chi svolge questo tipo di attività".
Mal pagati e con poche tutele, voci di lavoratori "indispensabili" che hanno lavorato anche in piena emergenza coronavirus
Un caso particolare, ma non è il solo tipo di difficoltà che i rider con l'esigenza di rinnovare il permesso di soggiorno si trovano a dover affrontare. La questione è rilevante se si pensa che in molte città d'Italia la forza lavoro delle aziende di food delivery è costituita soprattutto da stranieri. Nel 2019, uno studio dell'università statale di Milano ha documentato che i rider milanesi sono per lo più giovani migranti tra i 22 e i 30 anni, per cui le consegne a domicilio sono la prima fonte di reddito, a volte l'unica.
Spesso il vulnus è la tipologia di contratto con cui vengono inquadrati i ciclofattorini, spiega Livio Neri dell'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione (Asgi). In molti casi si tratta di una collaborazione occasionale, che impone una tassazione fiscale del 20 per cento permettendo di guadagnare massimo cinquemila euro in un anno. Superata quella soglia l'azienda dovrebbe versare anche i contributi all'Istituto nazionale di previdenza sociale (Inps), a meno che il lavoratore non decida di aprire una partita Iva. Ecco perché molti colossi delle consegne a domicilio la richiedono, pena la cessazione del rapporto di lavoro.
"Questo fa sì che il migrante non possa far affidamento solo sull'attività da rider per guadagnare seimila euro, cioè il reddito minimo necessario per ottenere qualsiasi tipo di permesso di soggiorno lavorativo, se non aprendo una partita Iva: una via non facile, visto che comporta l'emissione di fatture e dei costi di gestione totalmente a carico del lavoratore", dice Neri. È un inquadramento che danneggia soprattutto le persone già fragili a livello economico e sociale, fanno notare Elena Petrosino e Francesco Melis, sindacalisti della Cgil di Torino e Milano. A monte "ci sono delle responsabilità politiche di chi ha permesso la creazione di mercati del lavoro di serie A e di serie B": "Molti rider stranieri faticano a destreggiarsi con questa modalità di lavoro. Il risultato è che non hanno alcun diritto", aggiungono.
Come il sistema di consegne a domicilio possa comportare lo sfruttamento dei rider l'ha dimostrato un'inchiesta che ha portato al commissariamento per caporalato della filiale italiana di Uber Eats, la piattaforma dedicata all'ordinazione e alla consegna del cibo lanciata dal colosso del servizio automobilistico privato Uber. L'azienda avrebbe appaltato a società esterne il reclutamento dei fattorini, che erano pagati "a cottimo tre euro a consegna", meno delle tariffe previste dall'app, e scelti "in aree di particolare fragilità soggettiva e sociale in quanto provenienti da Paesi territorio di conflitti civili e razziali, richiedenti asilo politico e dimoranti, in alcuni casi, nei centri di accoglienza", si legge nel decreto del tribunale di Milano che ha disposto il commissariamento. Una volta assodati erano costretti a ritmi di lavoro "non compatibili con una tutela minima delle condizioni fisiche". Venivano derubati delle mance lasciate spontaneamente dai clienti, minacciati di non poter più lavorare, e puniti attraverso "una decurtazione arbitraria del compenso pattuito", se non si fossero attenuti alle disposizioni. Modalità di cui Uber non poteva non essere a conoscenza, visto il "ruolo attivo" svolto da dipendenti o ex dipendenti "posti in posizioni apicali".
Il reato di caporalato, cos'è e come funziona
Lo dimostrano le intercettazioni in cui si ascolta la manager della filiale italiana, Gloria Bresciani, rimproverare un altro impiegato della piattaforma: "Davanti a un esterno non dire mai più 'abbiamo creato un sistema per disperati' – raccomandava –. Anche se lo pensi, i panni sporchi vanno lavati in casa". L'amministrazione giudiziaria è stata revocata, in anticipo, lo scorso 3 marzo perché la società si è dimostrata "sensibile ed efficiente" nell'eliminare ogni forma di sfruttamento. Ha fatto a meno di ogni tipo di intermediazione nel reclutamento dei lavoratori e si è impegnata a rispettare i protocolli per la sicurezza e la salute, fornendo ai propri fattorini la formazione e le attrezzature necessarie.
Quale sia il contratto da applicare ai fattorini, invece, è ancora terreno di scontro. L'inquadramento firmato da Assodelivery, l'associazione delle piattaforme, e il sindacato di destra Ugl prevede che i rider rimangano lavoratori autonomi. Alla subordinazione puntano, invece, Cgil, Cisl e Uil. In questa direzione va l'accordo che quest'ultimi hanno chiuso con Just Eat Takeaway che ha portato al riconoscimento dello status di lavoratore subordinato per quattromila rider. E in questa direzione va anche un'inchiesta della Procura di Milano che ha imposto a Just Eat, Glovo-Foodinho, Uber Eats e Deliveroo l'assunzione di 60mila lavoratori, seppur con un contratto di collaborazione coordinata e continuativa cioè di parasubordinazione. L'inchiesta, durata un anno e mezzo e affidata al Comando carabinieri per la tutela del lavoro (guidati a Milano dal colonnello Antonino Bolognani), ha portato la procura a concludere che il fattorino è inserito a "pieno titolo nell’organizzazione d’impresa”.
Il fatto che il rider non sia un lavoro occasionale è "emerso in maniera inequivocabile", scrive il procuratore capo Francesco Greco, puntando il dito contro l'algoritmo e il sistema che attribuisce un punteggio a ogni fattorino in base alle prestazioni (rapidità, accettazione degli ordini, puntualità). Un meccanismo che fa sì che la presunta autonomia "dei rider si riduca in realtà a una scelta delle fasce orarie in cui svolgere la propria attività".
Alla conclusione che la libertà dei ciclofattorini sia più teorica che effettiva era arrivata anche una sentenza del tribunale di Palermo del 24 novembre 2020 che ha, però, dichiarato l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato tra il fattorino e l'azienda di food delivery in esame. "La giurisprudenza fatica ancora a inquadrare i rider come lavoratori subordinati tout court", spiega Alessia Consiglio, avvocato esperto di lavoro digitale. "Lo dimostrano l'oscura pronuncia della Cassazione, la prima sul tema, e in ultimo quella della procura milanese del 24 febbraio 2021. Entrambe pur non soffermandosi sulle qualità intrinseche del rapporto di lavoro in esame, hanno comunque fatto riferimento all’integrale applicazione della disciplina del lavoro subordinato. In questo contesto la disponibilità del Gruppo Just Eat di assumere quattromila fattorini è un primo passo". Ma è sui tavoli di negoziazione ancora aperti con le altre piattaforme che si deciderà "il futuro dei lavoratori dell'economia digitale", conclude Consiglio.
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