3 maggio 2021
Domenico Iannacone è uno dei giornalisti italiani che più ha trovato un equilibrio tra informazione di qualità e grandi canali di distribuzione. Conduttore prima de I dieci comandamenti e ora di Che ci faccio qui?, entrambi per Raitre, spiega che la sua passione per la lentezza – che non è solo lentezza narrativa, ma anche prendersi il giusto tempo per capire e approfondire le storie – lo ha portato a ridefinire una parte del giornalismo televisivo italiano. "Oggi – dice – mi sono liberato dall’assillo della velocità. E ho vinto".
“Molti colleghi con l’ossessione degli ascolti trattano di tutto senza parlare di niente”
Come è avvenuto l’avvicinamento al giornalismo lento?
C’è stato un punto della mia carriera in cui ho capito che la televisione stava accelerando, e più lei accelerava, più io maturavo la convinzione profonda che non potevo più farne parte. Così me ne sono allontanato. Questa scelta, fatta ormai una decina d’anni fa, alla fine ha pagato. Sono riuscito a liberarmi dall'assillo della velocità. Del resto la realtà è fatta anche di pause e tentennamenti: eliminarli sarebbe come tranciare una parte di verità.
Giornalismo, o si cambia o si muore
Nel frattempo il giornalismo italiano si è liberato da questo assillo?
No, è un problema che negli anni si è acuito anziché attenuarsi. Molti miei colleghi hanno l’ossessione degli ascolti e sono certi che cambiare freneticamente registro narrativo stuzzichi l’attenzione degli spettatori. Ma la verità è che questi continui voltapagina lasciano a chi segue da casa la sensazione di non avere ben capito di che cosa si sta parlando. Ci sono programmi in cui si parla di giustizia, sanità, cultura e sport ma poi alla fine non si è parlato di niente.
Perché in Italia la televisione non offre quasi più giornalismo di alto livello?
Perché abbiamo perduto il valore culturale della tv, che è stata depauperata. Ne è stata operata una lottizzazione politica che l’ha resa terra di conquista per i partiti, e chiaramente se si abbandona un avamposto di libertà, quell’avamposto è perso per sempre. Credo che un buon prodotto giornalistico debba avere valore anche se visto dopo dieci anni. Deve lasciare spunti di riflessione e ancorarsi a qualcosa che abbiamo dentro. Invece oggi i prodotti della tv non lasciano niente. Non generano alcun pensiero critico.
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La critica che si fa al giornalismo lento è che non abbia presa sul grande pubblico. È così?
No, questo è un luogo comune generato dall’egocentrismo dei conduttori di talk che vogliono avere sempre un faro acceso su di sé. Si pensa che il filmato faccia perdere gli ascolti: assurdo. Le convinzioni di chi dice questo sono basate su luoghi comuni.
La scelta di allontanarsi dalla tv ha avuto ripercussioni negative sulla carriera?
Mi sono sentito un corpo espulso, e infatti i miei programmi sono stati collocati negli orari più disparati. La mia fortuna è stata quella di aver avuto un pubblico che ha colto la mia modalità narrativa e di fatto mi ha protetto, salvandomi dall’oblio. Il rapporto col pubblico mi ha consentito di liberarmi dalla padronanza, mi ha dato capacità di resistenza. Spesso, vedendomi relegato in tarda serata, ho pensato: "Ma perché devo continuare a vivere situazioni di ghettizzazione?". Poi però ti ricordi che le persone ti seguono e stimano il tuo lavoro e quindi vai avanti, perché tutto sommato quella è l’unica cosa che conta. Mi dispiace solo che chi deve alzarsi alle sei per lavorare debba stare sveglio fino a notte fonda.
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