Dal 2019 al 2020 gli indagati per pedopornografia online sono aumentati del 90%. Nei primi quattro mesi del 2021 sono già 603. Dietro le immagini, una tragedia reale Confessioni di un pedopornografo: "Non faccio del male" | lavialibera
Christin Hume/Unsplash
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Confessioni di un pedopornografo: "Non faccio nulla di male"

Dal 2019 al 2020 gli indagati per pedopornografia online sono aumentati del 90%. Nei primi quattro mesi del 2021 sono già 603. Dietro le immagini, una tragedia reale

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoGiornalista

19 luglio 2021

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“Non faccio nulla di male. Guardo e basta”. Mario se lo ripeteva spesso quando la sera accendeva il computer e cercava in Rete video di minorenni vittime di abusi sessuali. Ricorda di aver iniziato guardando “troppi porno” con protagoniste adulte, poi è passato a ragazze sempre più giovani fino a scendere al di sotto dei 18 anni. L’hanno scoperto nel 2013, condannandolo a quattro anni di carcere in primo e secondo grado. Oggi è in attesa di sentenza definitiva e nel momento in cui arriverà dovrà raccontare quello che chiama “il mio calvario” a tutti: amici, parenti, colleghi. “Finora ho risparmiato i miei genitori e informato solo le persone più vicine. Uscire allo scoperto sarà inevitabile. Ma più di tutto mi peserà smettere di fare il mestiere che amo”. Mario è un insegnante di liceo e sul lavoro, assicura, è sempre stato “ineccepibile”, così com’è sempre stato “un figlio e un marito modello. Ho anche organizzato eventi che promuovevano la legalità e i diritti umani – dice –. Mi rendo conto che il mio comportamento online andava in tutt’altra direzione. Non so come riuscissi a scindere così nettamente la mia vita, ma lo facevo”.

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Il virtuale davanti al reale

La stessa linea di separazione fittizia tra reale e virtuale doveva averla tracciata un ottico napoletano di 71 anni: uno degli 81 italiani coinvolti in una delle più importanti inchieste contro la pedopornografia online condotte dalla polizia postale. Chiamata Luna park, l’operazione ha portato alla chiusura di 140 chat sulle app di messaggistica Telegram e WhatsApp in cui 432 utenti di tutto il mondo condividevano immagini di abusi su bimbe e bimbi molto piccoli, anche neonati. Uno dei canali era organizzato dal 71enne, stimato professionista con collaborazioni universitarie, moglie, figli e nipoti. Sul web si faceva chiamare Devil e, secondo gli investigatori, aveva creato una sorta di club esclusivo in cui trovare materiale su una precisa fascia d’età: dai quattro ai dieci anni.

Rispetto al 2019, nel 2020 i casi trattati di pedopornografia online (produzione, diffusione, detenzione e commercializzazione di violenza sessuale su minori) sono aumentati del 132 per cento

Rispetto al 2019, nel 2020 i casi trattati di pedopornografia online – cioè produzione, diffusione, detenzione e commercializzazione di violenza sessuale su minori – sono aumentati del 132 per cento. Gli indagati del 90, passando da 663 a 1261. Nei primi quattro mesi del 2021 se ne contano già 603. Hanno tra i 18 e i 70 anni, sono studenti, operai, impiegati, infermieri, militari. Uomini, per lo più.

Violenze sessuali, dalla parte dei "mostri"

Antonio, agente sotto copertura dell’operazione Luna park, ha meno di trent’anni e ha passato gli ultimi due come infiltrato nei gruppi in cui ci si scambia foto di bimbi stuprati come fossero figurine. Parla di un mondo eterogeneo, dove si incontra chiunque, e parallelo: ha il suo linguaggio, i suoi orari, le sue regole. La prima, che si impara subito, è che è vietato dare informazioni utili a rivelare la propria identità perché ne va della sicurezza di tutti. La seconda è che chi osserva e basta viene visto con sospetto: alla vita della comunità si deve contribuire, meglio se condividendo link utili. C’è chi ci guadagna, ma sono in pochi perché i contenuti inediti, assicura Antonio, sono una moneta più preziosa del denaro. L’idea, aggiunge Rocco Nardulli, responsabile della sezione reati su minori della polizia postale di Milano, è che si segua la logica del baratto: tu mi dai qualcosa di interessante, io ricambio. Se poi quel contenuto lo fai tu, magari con la tua nipotina, sei il top. Era il top un libero professionista di Torino, arrestato a fine maggio, che nell’ultimo anno e mezzo aveva abusato di due bambini di sei e otto anni, figli di una coppia di amici: erano talmente legati da andare insieme in vacanza. Quelle violenze le aveva immortalate e condivise sul dark web, la parte della Rete cui si accede solo usando specifici software, dove era diventato uno degli utenti più seguiti. Non aveva avuto nemmeno l’accortezza di coprirsi il volto, tanto era sicuro che mai l’avrebbero scoperto.

I più, però, i bambini non li toccano. Li contattano sui social per ottenere scatti intimi usando l’inganno dell’amore. Li pagano per vederli soddisfare via webcam le proprie perversioni in diretta. In tanti, troppi, guardano e condividono quanto prodotto da altri alimentando la diffusione delle immagini di abusi sessuali su minori che, come ha scritto il New York Times in un’inchiesta del 2019, hanno invaso il web. Per trovare i filmati Mario aveva i suoi canali. Li guardava soprattutto a tarda sera, quando la moglie si metteva a letto e lui rimaneva da solo nel suo studio. Lo stesso studio da cui ora parla via Skype, con la libreria sullo sfondo. In vacanza riusciva a resistere anche per settimane, tra il mare e le cene con gli amici, però poi “tornavo sul luogo del delitto, come tutti gli assassini”, dice. Ogni tanto si intrufolava nei forum popolari tra i giovani e adescava qualche adolescente. “Ma non ho mai chiesto foto, mi piaceva parlare con loro di sessualità. Se ho mai provato sensi di colpa? Tutti i giorni. Mi giustificavo dicendo che non commettevo alcun abuso fisico. Ero appagato e mi andava bene così. Lo schermo era il mio alibi perfetto”.

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Il reale dietro il virtuale

“Molti non percepiscono il disvalore di ciò che fanno – spiega Nunzia Ciardi, direttrice della polizia postale –. Ma dietro quelle immagini c’è una tragedia reale”. Reali sono bambine e bambini stuprati, costretti a far sesso con animali, o a gesti di auto erotismo. I protagonisti di quei video che Antonio ha guardato per ore con l’audio spento, perché solo non sentire le urla e i lamenti li rende più sopportabili, e di cui oggi non vuole raccontare i dettagli: “Non me li fare descrivere, si vede di tutto”. Purtroppo, e questa è la parte più triste di questa triste storia, non sempre è facile identificare le vittime. Gli abusanti sono diventati sempre più bravi a modificare le immagini, rendendo irriconoscibili loro stessi, i minori e il contesto. E le denunce arrivano spesso ad anni di distanza. Arianna Consiglio, del centro di ascolto dell’associazione contro pedofilia e pedopornografia fondata da don Fortunato Di Noto Meter, e Simona Maurino, del servizio emergenza infanzia 144 del Telefono azzurro, raccontano che non è raro che a chiamare siano adulti: donne e uomini che, violentati da piccoli, non hanno mai avuto il coraggio di denunciare e oggi faticano ad avere rapporti sentimentali o hanno problemi con i colleghi di lavoro. La maggior parte del materiale pedopornografico, poi, è prodotto all’estero: in America del Sud, Asia, Europa dell’est.

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Molti contenuti sono sempre gli stessi, girano da anni, ma “la nuova produzione è costante”, sottolinea Cathal Delaney, a capo dell’Analysis project twin, programma dell’Europol che combatte lo sfruttamento sessuale dei minori. Violenze offline che si sommano a quelle online, come la richiesta di immagini private o di prestazioni in diretta, e che possono assumere forme sempre nuove e diverse. Ma che, dicono gli studi, hanno sulla psiche lo stesso impatto: disturbi nella vita sociale e sessuale; un dolore reale, che dura per sempre. A oggi l’ufficio europeo di polizia ha accumulato oltre 52 milioni di foto e video di questo tipo. “Migliori strumenti ci permettono di avere un quadro più ampio di ciò che c’è in Rete – prosegue Delaney –, ma non basta a spiegare l’incremento cui assistiamo: dal 2016 al 2019 le segnalazioni fatte dagli operatori dei servizi internet per 18 Paesi europei sono passate da 32mila a 332mila. Qualsiasi parametro si guardi, la quantità di male fatta ai bambini è immensa”.

Niente più alibi

“Che ci faccio insieme a questi pedofili?”, è stata la prima cosa che Mario ha detto tra sé e sé partecipando a un incontro del servizio gestito dal Centro italiano per la promozione della mediazione, cooperativa sociale che lavora al trattamento degli autori di reati relazionali: maltrattamenti, violenza domestica, violenza sessuale, stalking e omicidio. L’ha cercato di propria volontà e arrivarci non è stato facile “perché online trovavo solo associazioni che si occupano delle vittime”. Altrettanto difficile è stato specchiarsi con chi ha abusato fisicamente di bambini e bambine. “La prima reazione è stata pensare: non sono come loro. Ci è voluto un po’ di tempo per realizzare che erano i protagonisti dei video che guardavo e che anch’io avevo fatto del male, eccome”. Non che non se ne fosse mai reso conto, ma “non riuscivo a smettere da solo” e chiedere aiuto era “troppo disdicevole”.

Il “terrore di poter ricadere” non lo “fa vivere benissimo”. Lo aiuta riempire la casa di simboli che gli ricordano quello che ha fatto, come il mandato di perquisizione che ha mantenuto a vista sul desktop del computer per anni. Il perché l’abbia fatto ha smesso di chiederselo, non gli serve. Gli serve sapere che c’è una parte di lui che deve tenere a bada, con un lavoro costante perché “ho imparato che non è una malattia, che prendi l’aspirina e passa”. In attesa di condanna definitiva, Mario continua a fare la sua vita di sempre. Il carcere un po’ lo spaventa, ma crede che “ci sta”: è convinto che se alla pena si associa la rieducazione, la limitazione della libertà può aiutare a “capire che ciò che hai fatto non è stato uno scherzo”. "Quando gli agenti sono entrati in casa, li ho ringraziati”, confessa. Dicono che lo facciano in tanti.

Da lavialibera n° 9, Picchio, dunque sono

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