3 maggio 2021
Sono passati due anni da quando, nell’aprile del 2019, un’inchiesta giornalistica ha portato all’attenzione del grande pubblico un argomento di solito riservato agli addetti ai lavori: l’impiego che si fa nelle indagini dei trojan, software in grado di infilarsi in computer o smartphone per monitorarne le attività, senza farsi notare. La testata statunitense Motherboard e l’associazione Security without borders hanno svelato l’esistenza di uno di questi programmi (Exodus) su Play store, il negozio digitale di Google, mascherato da innocue applicazioni.
I trojan, o captatori informatici, sono la nuova frontiera delle intercettazioni. La quantità di informazioni che questi strumenti possono ottenere va dalle chiamate ai messaggi, passando per gli spostamenti. Molti magistrati ne hanno elogiato le capacità nel contrasto alla criminalità organizzata e da anni sono sempre più usati dalle procure italiane. A fornire i captatori sono società esterne che nella maggior parte dei casi non vendono la loro tecnologia, ma l’affittano e fanno pagare un abbonamento quotidiano per ogni persona intercettata: tempo fa una fonte mi ha spiegato che un target può costare tra i 50 e i 200 euro al giorno e il guadagno medio in sei mesi è di circa 700mila euro. Per ridurre i costi è in discussione una bozza di decreto con cui il ministero della Giustizia, in accordo con quello dell’Economia e delle finanze, si propone di rivedere e razionalizzare le spese relative alle intercettazioni. Ma il provvedimento lascia aperta la possibilità di fare ricorso ai privati.
Alcuni strumenti usati nelle indagini sono gestiti da aziende ed è un problema
Una pratica che continua malgrado queste aziende siano più volte finite al centro di scandali e inchieste giudiziarie. Nel 2016 le intercettazioni di diverse procure sono state trovate sul server di un dipendente di Area spa, una delle società che forniscono trojan. Nel 2019 si è scoperto che E-Surv, sviluppatrice di Exodus, salvava i dati delle intercettazioni su server negli Stati Uniti. Due anni dopo, le indagini condotte dalla procura di Napoli sono ancora in corso. Non sappiamo quanti cittadini siano stati intercettati illecitamente, ammesso che qualcuno ci sia stato, e non sappiamo neanche che fine abbiano fatto le intercettazioni autorizzate dalle magistrature.
Non sappiamo se siano state recuperate e se vengano usate nei processi, anche se in teoria non si potrebbe visto che – precisa l’avvocato Stefano Aterno – per legge i dati devono essere custoditi su server collocati all’interno delle procure, o comunque sul suolo italiano, rispettando determinati standard. Una proposta di legge presentata nel 2017 dall’ex deputato Stefano Quintarelli aveva provato a risolvere il nodo, prevedendo che l’esecuzione materiale delle operazioni fosse affidata solo alla polizia giudiziaria, senza la possibilità di avvalersi di tecnici e società esterne. Non sembra di facile realizzazione, ma più che altro non se n’è più parlato.
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