13 ottobre 2021
L’esperienza ha vinto sull’improvvisazione populista, ma l’astensionismo svetta su tutto. Dalle elezioni amministrative di ottobre ci sono alcuni insegnamenti da trarre. Se guardiamo i risultati di Napoli, Bologna e Milano, con le vittorie al primo turno di Gaetano Manfredi, Matteo Lepore e Beppe Sala, possiamo sostenere che il centrosinistra ha vinto perché ha candidato persone di esperienza: un rettore che è stato ministro; una persona con competenza politica e amministrativa nella sua città e un sindaco molto affermato. Lo stesso si può dire di Roberto Gualtieri, candidato del Pd arrivato al ballottaggio a Roma dopo una crisi lunga e profonda del partito: si tratta di un ex ministro, in passato ex parlamentare europeo, una persona con radici e cultura.
Il centrosinistra ha espresso candidature più serie rispetto al centrodestra, che invece le ha improvvisate mandando avanti candidati civici. Ovviamente in quest’analisi parliamo delle grandi città, senza prendere in considerazione i tantissimi piccoli e medi centri urbani (in Italia ci sono ottomila Comuni), dove i risultati sono meno netti. Si tratta di un aspetto da tenere in conto perché nei grossi centri, dietro la facciata dei leader, non c’è quella consistenza politica e amministrativa che nei piccoli centri formazioni come la Lega sono capaci di esprimere. Dietro al volto e alle esternazioni di Matteo Salvini c’è infatti una classe dirigente che lo smentisce nella sua propaganda. Dietro Giorgia Meloni, invece, non c’è nemmeno quella platea di amministratori locali.
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Veniamo al secondo insegnamento di questo voto. A differenza di altre occasioni, in questa il centrodestra non è riuscito a mobilitare il proprio elettorato perché si è concentrato su una propaganda incapace di intercettare i problemi più sentiti dagli italiani in questo momento storico. Questa volta ha puntato su alcune questioni – il green pass, i migranti – percepiti come secondari rispetto a lavoro, sanità e scuola. Sia il M5s, sia la propaganda della destra sono riusciti, in fase diverse e con argomentazioni diverse, a captare il malcontento, la ribellione e i problemi dimenticati da chi governava in quel momento. Quel meccanismo, adesso, si è inceppato. Il calo del M5s dimostra che dalle proteste una parte dell’elettorato matura e passa ad altre proposte, mentre una parte torna al ribellismo.
Non va sottovalutato tutto questo, né si deve pensare di trasferire automaticamente questo voto alle elezioni politiche perché il dato che preoccupa è quello dell’astensionismo. Una democrazia non vive sull’astensionismo e non vive neanche sul populismo capace di intercettare quell’astensionismo. Per questo dalle elezioni va tratto un altro insegnamento: i vincitori dovranno imparare a non sottovalutare la grande percentuale di astenuti. Ci sono immense praterie da esplorare, perché la politica non conosce fino in fondo questo Paese.
La politica ha immense praterie da esplorare perché non conosce fino in fondo questo paese. Bisogna stare nelle periferie umane
Se non vogliamo che nasca un altro interprete del populismo di maniera, bisogna che si vada nel profondo e si comprendano questo disagio, questa sofferenza e questa lontananza. La strada è ascoltare, compatire e condividere, provare a fare qualche domanda, essere lì dove non c’è più nessuno, neanche un punto d’ascolto. Non è da sottovalutare quanto emerge dai social network, ma ci sono moltitudini che non stanno neanche lì, restano nella loro casa, nel loro luogo di lavoro, nei loro problemi e nelle loro solitudini. Lì deve arrivare il punto di ascolto, lì deve tornare la politica.
Qualcuno deve arrivare e stare nelle grandi periferie umane, quelle che stanno molto a cuore a papa Francesco. Si deve sentire una politica interessata, che vuole capire, rivolge domande e ascolta le risposte. Non quelle che alimentano soltanto i problemi. Gli italiani che non votano si sono stancati anche del populismo degli ultimi anni, incapace di dare soluzioni.
Si deve allargare la partecipazione. La vita di un partito deve concepirsi come il punto di arrivo di un processo di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, un processo che i partiti dovrebbero sostenere. Non ho mai considerato una patologia il fatto che in Italia ci fosse una grande partecipazione elettorale, con tassi di voto intorno al 70 per cento, ben più alti rispetto ad altri Stati. Tuttavia se adesso non c’è più neanche quella corsa alle urne, vuole dire che manca tutto il resto, cioè la presenza nella società e la partecipazione, l’associazionismo, l’impegno, la vicinanza di un leader politico.
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