15 ottobre 2021
Quarantaquattro milioni di euro in tre anni. Tanti sono i soldi che lo Stato ha speso per la gestione da parte di soggetti privati dei dieci Centri per il rimpatrio dei migranti (Cpr) attualmente attivi in Italia: strutture in cui gli stranieri in attesa di espulsione vengono trattenuti in condizioni di vita disumane e dove a luglio si è tolto la vita Moussa Balde, un 23enne del Gambia che agli inizi di maggio era stato vittima di un pestaggio da parte di tre ragazzi italiani. Lo documenta un rapporto della Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) che definisce questi centri "un fallimento" non solo "in termini di rispetto per i diritti umani", ma anche "nell'utilizzo delle risorse pubbliche". Un buco nero per le casse dello Stato, che negli anni ha cercato di minimizzare i costi, e una fonte di guadagno per le aziende cui è affidato il mantenimento delle strutture che, dall'altra parte, puntano a massimizzare i profitti. Il risultato: condizioni spesso pessime e servizi ridotti al lumicino.
La morte di Moussa Balde dimostra che i Centri per il rimpatrio dei migranti vanno chiusi
Cild ha analizzato i bandi indetti dalle prefetture dal 2018 al 2021, arrivando alla conclusione che in un triennio sono stati scuciti 43.964.512,00 euro, esclusa l’iva: somma che lieviterebbe ancora di più se fossero aggiunti anche i costi del personale di polizia, quelli relativi alla manutenzione delle strutture e alle ristrutturazioni necessarie a ogni rivolta dei trattenuti, e i soldi per i rimpatri. La struttura più costosa è stata quella di Roma (quasi nove milioni di euro per 250 posti), seguita da quella di Torino (sette milioni e mezzo per 180 posti) e di San Gervasio, in provincia di Bergamo (sei milioni per 150 posti). La media di spesa al giorno per trattenere meno di 400 persone è di oltre 40mila euro.
Nelle strutture è possibile acquistare cibo o sigarette solo negli spacci, gestiti in regime di monopolio: i prezzi sono esorbitanti
Un business che a volte non si limita alla sola gestione della struttura. Significativo è il caso di Milano, dove l'azienda a cui è affidato il Cpr controlla anche lo spaccio interno in cui vengono venduti generi alimentari e altri beni (come le sigarette). È l'unico luogo in cui i trattenuti possono comprare qualcosa se hanno fame tra un pasto e l'altro, dato che a differenza delle carceri non è possibile avere a disposizione un fornelletto per cucinare. Gli articoli si ordinano agli operatori e il corrispettivo dovuto è trattenuto dal pocket money: il budget quotidiano a disposizione dei migranti, pari a due euro e cinquanta centesimi. Peccato che tutto avvenga in regime di monopolio e che i prezzi dei beni venduti non solo siano inaccessibili per le tasche delle persone trattenute, ma anche superiori a quelli di qualsiasi supermercato: per esempio, il costo di una confezione di wafer da 45 grammi è di cinque euro a fronte dei pochi centesimi necessari al di fuori del Cpr.
Ma chi sono gli enti gestori dei Cpr? Le informazioni sono poche e a volte ci si trova davanti a scatole cinesi: multinazionali che si occupano di diversi settori, come Gepsa, gestore di diversi centri per il rimpatrio (tra cui quello torinese da sei anni), che ha come società madre Engie Italia, a sua volta parte di Engie Francia. Nel nostro paese Engie si occupa di energia e mobilità sostenibile: nel novembre del 2020 ha siglato un memorandum con il gruppo automobilistico Fca, e nell’aprile del 2021 ha annunciato una collaborazione con Amazon per la realizzazione di due parchi agro-fotovoltaici in Sicilia. Mentre Gepsa si è specializzata in accoglienza dei migranti e gestione dei Centri di trattenimento, dimostrando – scrivono gli autori del rapporto – "quanto il trattenimento dei migranti sia divenuto un settore molto remunerativo e di attrazione per le multinazionali".
Le informazioni sono poche e a volte ci si trova davanti a scatole cinesi. Non sono rari i casi in cui queste aziende siano al centro di vicende giudiziarie
Non sono rari i casi in cui queste aziende siano al centro di vicende giudiziarie. Un esempio è Edeco, cooperativa sociale padovana che negli ultimi dieci anni ha spesso cambiato nome, è stata oggetto di inchieste giudiziarie e interrogazioni parlamentari. L'impresa è diventata nota al grande pubblico nel gennaio 2017, quando una richiedente asilo della Costa d’Avorio di 25 anni è morta per problemi di salute all'interno del Cpr di Cona, sotto il controllo di Edeco. Ma già nei mesi precedenti la struttura era stata al centro di più interrogazioni parlamentari per le condizioni di vita disumane e il grave sovraffollamento: nel dicembre 2016 erano presenti 1256 richiedenti asilo, divisi in tendoni che ospitavano fino a 500 persone, non c'era la possibilità di consumare i pasti seduti, e non era garantita un’assistenza sanitaria adeguata. Sempre nel 2017 sono state avviate tre indagini delle procure di Rovigo e Padova. Le accuse sono di "truffa, falso e maltrattamenti". Nel giugno 2019 vengono rinviati a giudizio due viceprefetti, una funzionaria della prefettura di Padova e i vertici di Edeco per i “reati di turbativa d’asta, frode nelle pubbliche forniture, corruzione, abuso d’ufficio, rivelazione del segreto d’ufficio, falso”. Il processo risulta ancora in corso, ma nel frattempo Edeco ha deciso di dare una rinfrescata al proprio brand diventando Ekene Cooperativa sociale nel gennaio 2021.
Cpr, storie di ordinaria ferocia: un mondo senza è possibile. Le città invisibili, la newsletter mensile de lavialibera
Altro caso interessante è quello della cooperativa Badia Grande, che nel 2017 si è aggiudicata la gara d'appalto da circa cinque milioni di euro per il controllo del Cpr di Bari-Palese. Lo scorso ottobre sono stati rinviati a giudizio direttrice del Centro fino al febbraio 2021, il medico responsabile del Centro fino a dicembre 2019, il legale rappresentante della società cooperativa e il referente dell’associazione Paceco Soccorso che prestava servizio di assistenza sanitaria all’interno del Centro di Palese. "Le ipotesi di reato, contestate dal pm Michele Ruggiero all’esito delle indagini della polizia, sono frode nell’esecuzione del contratto di affidamento, in particolare, del servizio di assistenza sanitaria e, per tre dei quattro indagati, anche la violazione delle misure di sicurezza sui luoghi di lavoro".
I costi esorbitanti sostenuti sono ancora più ingiustificati se si guardano i dati relativi ai rimpatri effettuati: dal 2013 a oggi la media non ha mai superato il 50 per cento. Da qui la conclusione del rapporto Cild: "Il trattenimento nei Centri per il rimpatrio non soddisfa la sua finalità originaria, il superamento degli ostacoli che impediscono il rimpatrio", si legge. E acquisisce, invece, "una natura sanzionatoria e simbolica, per punire con la privazione della libertà personale degli individui che non hanno commesso un reato, ma che sono colpevoli di essere irregolari".
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