26 ottobre 2021
Nei corridoi del tribunale di Vicenza il procedimento per l’inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) scoperto otto anni fa in Veneto è già chiamato da tutti “maxi processo”. Non potrebbe essere altrimenti dopo tre udienze in cui decine di avvocati e di parti civili hanno sfilato nell’aula della corte d’assise per quello che è uno dei processi ambientali più grandi della storia italiana per numero di soggetti coinvolti ed entità del danno. “Stiamo parlando della contaminazione della seconda falda idrica più grande d’Europa, con un coinvolgimento attuale di 350mila persone, ma destinato ad allargarsi molto di più”, ricorda Matteo Ceruti, avvocato che rappresenta le Mamme no Pfas, uno dei movimenti che per primi ha preteso chiarezza sulla pericolosità di queste sostanze e ora chiede giustizia. Con loro sono in tutto 318 le parti civili del processo, tra cui singoli cittadini, Regione, comuni, ministeri, associazioni ambientaliste ed ex lavoratori.
Sempre assenti i 15 imputati rinviati a giudizio. Si tratta degli ex vertici di Miteni (l’azienda di Trissino, fallita nel 2018, presunta responsabile di aver inquinato la falda veneta), di Mitsubishi e del gruppo lussemburghese International chemical investors group (Icig), rispettivamente i vecchi e i nuovi proprietari della fabbrica. Manager e soci sono accusati a vario titolo di avvelenamento di acque, disastro innominato aggravato e inquinamento ambientale.
Il processo, entrato in dibattimento il primo luglio di quest’anno e frutto dell’unificazione di due filoni di inchiesta, è chiamato a far chiarezza sulle azioni dei dirigenti in due fasi storiche: prima del 2013 per lo sversamento di Pfas tra le province di Vicenza, Padova e Verona e dal 2013 ad oggi, quando le acque sono state contaminate da Pfas di nuova generazione (GenX e C6O4). La Miteni è accusata inoltre di bancarotta fraudolenta per avere aggravato il proprio bilancio, con perdite per quasi 15 milioni di euro tra il 2010 e il 2017, senza aver accantonato le somme necessarie per la bonifica dei terreni e delle acque contaminate.
Il rinvio a giudizio di tutti gli indagati il 26 aprile scorso è stato l’esito che le Mamme no Pfas, insieme agli ex lavoratori e alle associazioni ambientaliste come Legambiente, Greenpeace e Medicina democratica, attendevano da tempo. Le prove della contaminazione da Pfas delle acque venete e dei primi esposti alla procura risalgono al 2014. Bisognerà però attendere il 2017 per le analisi sulle comunità più esposte. Gli screening hanno trovato altissime concentrazioni di queste sostanze nel sangue sia degli adulti sia dei giovani. Da quel momento uno dei simboli delle Mamme è diventata proprio la quantità di Pfas e Pfoa presente nel loro organismo e in quello dei loro figli, stampato ancora oggi sulle loro magliette.
Nel 2019 le indagini del Nucleo operativo ecologico dei carabinieri (Noe) di Treviso hanno portato a ritenere la Miteni il principale responsabile dell’inquinamento della falda. Secondo la procura i vertici erano consapevoli che l’azienda inquinava “la falda e le acque superficiali destinate comunque al consumo”, ma non si sarebbero attivati per evitare le conseguenze degli sversamenti. Ad accreditare la teoria c’è la cessione di Miteni da Mitsubishi a Icig per un euro, quando il valore era di almeno 15 milioni.
Il giorno prima dell’udienza preliminare le Mamme no Pfas e tanti cittadini hanno partecipato a una marcia di 35 chilometri, organizzata da Legambiente e Pfas Land, dall’ex stabilimento di Miteni fino al tribunale di Vicenza. È stata l’occasione per chiedere il sostegno delle amministrazioni locali e ribadire la necessità di limiti nazionali allo sversamento di queste sostanze. La parte più difficile della rivendicazione è però cominciata il giorno dopo il rinvio a giudizio, perché l’esito del processo non è affatto scontato.
“In tutte le pronunce precedenti non c’è la prova di contaminazione fisica, ma solo di esposizione. Noi invece abbiamo già molto di più: le prove che queste sostanze sono finite nel sangue”Matteo Ceruti - Avvocato delle parti civili
Il danno dell’inquinamento è stato quantificato nel 2019 dagli esperti dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) in 136 milioni di euro e proprio sui risarcimenti si gioca la partita più importante. Mitsubishi, Icig e Miteni hanno chiesto di essere esclusi dai responsabili civili a causa di presunti vizi di procedura nelle indagini. Se questo avvenisse “i costi milionari dell’inquinamento ricadrebbero sulla collettività e verrebbe meno il principio del ‘chi inquina paga’”, hanno ricordato i legali delle parti civili.
Le difese degli imputati in queste prime udienze hanno anche domandato lo spostamento del processo a Trento per un’ipotetica incompatibilità dei giudici e la divisione del procedimento in due tronconi: uno per i reati ambientali e uno per la bancarotta fraudolenta. Di parere contrario gli avvocati delle parti civili secondo cui la bancarotta è diretta conseguenza dell’inquinamento e per questo il processo deve essere uno solo.
I legali degli imputati hanno poi chiesto l’esclusione di molte parti civili dal processo, tra cui sindacati e associazioni ambientaliste che non avrebbero svolto in precedenza attività a sostegno della salute. Ad alcuni cittadini è invece contestato di non aver dimostrato la residenza nei luoghi contaminati con un certificato storico.
A tutte le istanze difensive gli avvocati delle parti civili hanno risposto punto per punto durante l’ultima udienza. Cristina Cola, mamma No Pfas e avvocato di Lonigo, paese in provincia di Vicenza, si dice fiduciosa di poter avere giustizia, ma ammette la difficoltà che un processo lungo e complesso come questo comporta: “Anche se ero preparata, emotivamente è pesante, essendo parte lesa”.
Ottimista è anche l’avvocato Ceruti: “Credo che ci siano tutti i presupposti perché le richieste delle difese vengano rigettate”, commenta a margine dell’ultima udienza. Sulle richieste di esclusione di molte parti civili il legale del movimento si sente sicuro: “In tutte le pronunce precedenti in cui vengono ammesse persone fisiche come parti civili per disastro o avvelenamento delle acque non c’è la prova di contaminazione fisica ma solo di esposizione – spiega –. Noi invece abbiamo già molto di più: le prove che queste sostanze sono finite nel sangue”. Su queste richieste la corte, presieduta dalla giudice Antonella Crea, si esprimerà l’11 novembre.
Il processo in corso a Vicenza è solo uno dei fronti su cui mamme e associazioni sono impegnate. Ad oggi non c’è ancora stata un’indagine epidemiologica nelle zone contaminate, anche se la Regione Veneto ha acconsentito a effettuarla. Questo rende difficile collegare la presenza di Pfas nel sangue alle malattie insorte nel frattempo nella popolazione. Una relazione comunque già acclarata in diversi studi anche a livello internazionale.
Come si sospettava, i cittadini contaminati delle province di Vicenza, Padova e Verona hanno avuto la prova della presenza massiccia di Pfas non solo nella falda acquifera, ma anche nei prodotti alimentari locali entrati in contatto con quell’acqua. La Regione, dopo una sentenza del Tar del Veneto, è stata costretta a rilasciare a settembre preoccupanti dati su un campione di oltre 1.200 alimenti, analizzati tra il 2016 e il 2017. Le analisi sono state comunque parziali perché limitate alla zona rossa della contaminazione e non hanno preso in considerazione tutti alimenti di origine vegetale e animale, rendendo difficile capire l’entità del problema.
Sono in corso le indagini anche su un ulteriore filone, quello dei danni agli ex lavoratori della Miteni, alcuni dei quali lo scorso autunno hanno ottenuto i primi riconoscimenti di malattie professionali. La bonifica del sito Miteni – per ora a carico di Icig – è invece ancora ferma, mentre la società indiana Viva life che ha comprato i macchinari dell’ex fabbrica ha iniziato in queste settimane a smontarli dopo lo stop causa covid.
Nel frattempo anche in Piemonte, ad Alessandria, ha iniziato a muovere i primi passi un movimento di protesta analogo a quello veneto, sulla presenza dei temuti Pfas, le sostanze perfluoroalchiliche, nei dintorni di Spinetta Marengo, dove sorge la società chimica Solvay Solexis. Lo scorso 8 ottobre in una sala comunale in centro città le associazioni ambientaliste Legambiente, Greenpeace e Wwf hanno presentato alla popolazione i dati di uno studio sulla contaminazione ambientale: i ricercatori del Consiglio nazionale per le ricerche (Cnr) hanno spiegato come le sostanze perfluoroalchiliche abbiano contaminato l’ambiente e gli animali anche vicino allo stabilimento alessandrino.
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