16 febbraio 2022
La data stabilita è l’11 marzo. Quel giorno Gabriel Boric, all’età di 36 anni e un mese, si insedierà alla Moneda, la residenza del presidente del Cile, il più giovane capo di uno Stato sudamericano. A dicembre ha sconfitto il suo avversario politico, il politico di ultradestra José Antonio Kast, e nelle scorse settimane ha presentato la sua squadra di governo (il Cile è una repubblica presidenziale, dove il presidente guida l’esecutivo), composta da una maggioranza di donne e con un’età media bassa. Boric e altri componenti dell’esecutivo arrivano dalle esperienze dei movimenti studenteschi e questo fa ritenere che il loro potrebbe essere un governo di rottura col passato, legato alla dittatura di Augusto Pinochet e alle politiche economiche liberiste, e un governo in continuità con i movimenti sociali degli ultimi decenni.
"No son 30 pesos, son 30 años" (non sono 30 pesos, sono 30 anni) è questo lo slogan che ha segnato uno dei momenti più incisivi degli ultimi decenni in Cile dalla Transicion , la Transizione democratica avviata per portare il Paese fuori dalla dittatura militare durata dal 1973 al 1990. È con questo grido di protesta che giovani e meno giovani hanno espresso non solo e non tanto il dissenso per l’ulteriore aumento del costo del trasporto pubblico, ma l’esasperazione dovuta a costi di vita altissimi a fronte di stipendi miseri, il disagio di famiglie costrette a indebitarsi per vedersi garantiti servizi di base, come la salute, l’istruzione, la pensione. Un grido di dissenso nato anche dalla necessità di denunciare lo schema di corruzione capillare messo a punto nelle istituzioni e tra le alte cariche di Stato, a partire dagli illeciti compiuti dal presidente Sebastián Piñera (in carica dal 2010 al 2021), il cui nome è apparso recentemente nei Pandora Papers, una grande inchiesta giornalistica internazionale sull'evasione fiscale.
Il Cile, considerato un Paese stabile e rassicurante dai mercati internazionali, ha uno tra gli indici di disuguaglianza più alti del mondo: gli ultimi dati riportano che il 10 per cento di popolazione più ricca guadagna quasi 40 volte di più del 10 per cento di quella più povera. Un equilibrio fragile incentrato sulla ricchezza di un’élite: secondo l’economista Jorge Katz, come riportato su Avvenire, “non esiste il Cile ma quattro Cile differenti in ordine decrescente di sviluppo economico dove, alle punte di eccellenza, corrispondono abissi di miseria ed emarginazione.
Lo scenario attuale è figlio delle politiche neoliberiste mantenute invariate dall’epoca di Augusto Pinochet. Come ci spiega Johannes Vera, presidente della ong Plataforma de derechos humanos para el buen bivir, parte di Red Alas (rete promossa in America Latina da Libera), “non sono stati fatti i conti con l’assetto prodotto dal regime e basato su un sistema di ingiustizia sociale”. Per decenni è stata tutelata un’elite economica, arricchita e impunita, che direttamente e indirettamente ha sostenuto Pinochet e che ancora adesso, come una triste eredità del passato, ha il potere di disegnare il destino del paese. L’esperimento del mercato selvaggio ha avuto come risultato una precarietà estrema che non poteva non portare ad una rivolta, quello che in Cile viene chiamato el estallido social, letteralmente l’esplosione sociale. E così è stato. Come ben ci spiega la giornalista Lucia Capuzzi nella sua pubblicazione dedicata all’America Latina, Un continente in rivolta, “la diseguaglianza è stata il motore della rivolta del 2019. La piazza, allora, aveva puntato i riflettori sul grande limite della Transizione: il mantenimento del sistema rigorosamente neoliberista, pinochetista, moltiplicatore delle disparità”.
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"Nel corso di questi anni di proteste, infatti, ogni generazione si è aggiunta a quella precedente e questo effetto a catena ha permesso di ampliare il raggio d’azione dei movimenti di base, creare nuovi spazi di coordinamento e impegno, dialogare con più componenti della società creando una coscienza politica diffusa e portatrice di cambiamenti"Facundo Ortiz Nunez - Giornalista indipendente
Viste le premesse, come si sia arrivati lo scorso 19 dicembre alla vittoria di Gabriel Boric, 35 anni, della coalizione di sinistra Apruebo Dignidad, sul suo avversario politico di ultradestra, José Antonio Kast, garante delle politiche economiche e sociali portate avanti fino ad oggi, potrebbe sembrare un mistero, o comunque un evento rivoluzionario. Di fatto non è stato compiuto nessun atto rivoluzionario, ma è stato piuttosto intrapreso un tortuoso percorso politico da parte dei movimenti sociali, a partire da quello studentesco, di cui Boric è stato uno dei suoi principali leader. In questi ultimi 15 anni, insieme a un coordinamento sempre più ampio di associazioni, collettivi femministi e organizzazioni per i diritti umani è stato reso possibile l’impossibile, ossia generare un cambio di rotta senza precedenti.
La generazione ora al governo rappresentata da Gabriel Boric, da Camila Vallejo, nominata portavoce del presidente nel nuovo governo (incarico considerato ministeriale in Cile) e Giorgio Jackson diventato segretario generale e rapporti col Parlamento inizia le sue lotte già dalle scuole secondarie, nel 2006, durante la cosiddetta revolución pingüina (rivoluzione dei pinguini) nome dato per il colore delle uniformi scolastiche.
Proprio a metà del primo anno di mandato dell’allora presidente Michelle Bachelet (attuale Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani), un movimento di studentesse e di studenti, eterogeneo nella sua composizione, è riuscito infatti ad imporre nell’agenda politica nazionale il tema dell’educazione, mirando a cambiare l’intero sistema educativo cileno. Due sono state inizialmente le ragioni scatenanti di questa prima grande mobilitazione: l'aumento dei costi per accedere ai test d’ingresso universitari e la restrizione a due volte al giorno dell'uso del pass scolastico, usato soprattutto per il trasporto pubblico, servizio da sempre molto caro nel Paese. Anche in questa occasione le rivendicazioni sono passate ad essere subito più ampie e radicali, in risposta alla privatizzazione del sistema educativo cileno imposto dalla dittatura militare di Pinochet. Con scioperi, manifestazioni nazionali e occupazioni delle scuole, il movimento studentesco è arrivato a rompere un primo ingranaggio del sistema, decisivo e blindatissimo della società cilena: la richiesta di una scuola pubblica accessibile a tutte e tutti, di qualità e inclusiva. Una scossa significativa per un Paese dove la classe dominante, politica ed imprenditoriale, si è sempre formata in scuole private esclusive o all’estero. Certamente questo primo atto, un vero “terremoto sociale”, come vengono ben definite da Lucia Capuzzi le mobilitazioni cilene, apre le porte al secondo, quello del 2011. Come fa notare un ex studente, allora attivista del movimento dei pinguinos, "quello che era possibile nel 2006 è diverso da quello che è possibile nel 2011. Se non avessimo avuto la prima mobilitazione, nel 2011 non avremmo avuto i progressi che sono stati raggiunti in seguito”.
Il giornalista indipendente Facundo Ortiz Núñez spiega che “nel corso di questi anni di proteste, infatti, ogni generazione si è aggiunta a quella precedente e questo effetto a catena ha permesso di ampliare il raggio d’azione dei movimenti di base, creare nuovi spazi di coordinamento e impegno, dialogare con più componenti della società creando una coscienza politica diffusa e portatrice di cambiamenti".
Nel 2011 Boric, Vallejo, Jackson e tutti i giovani militanti del 2006, sono studentesse e studenti universitari, pronti a portare avanti le loro lotte, già a partire da basi molto solide: l’educazione è ormai al centro del dibattito nazionale e questo aiuta a volgere lo sguardo a obiettivi più alti. Lotta studentesca che si fa anche lotta sociale, che nelle sue rivendicazioni chiede inclusione, un sistema economico basato sulla giustizia, una vita dignitosa per tutte e tutti, un accesso più egualitario al mondo del lavoro, lotta alla corruzione e alle forme di sfruttamento. Si chiede di rompere con il passato più buio del regime militare, ma anche con le logiche partitiche della Transición e del centro-sinistra tradizionale, responsabili di non aver prodotto una trasformazione culturale, prima ancora che economica, della società cilena.
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"Le proteste cilene contro la privatizzazione dell'istruzione sono state per i cileni il simbolo di una lotta per la giustizia sociale a tutto campo, per gli studenti italiani e di molti paesi europei sono state un modello cui guardare"Link - Coordinamento studentesco
C’è un altro aspetto importante da evidenziare: la risonanza internazionale di questa seconda ondata di mobilitazioni studentesche. Il movimento cileno è diventato un esempio non solo per le giovani e i giovani dei paesi più vicini latinoamericani, ma anche per quelli di oltreoceano. È nata con ancor più convinzione la volontà dei tanti raggruppamenti studenteschi di internazionalizzarsi e muoversi così insieme verso direzioni affini, mossi da stessi principi. Come veniva riportato in quegli anni su Il Corsaro dal coordinamento studentesco Link: “Le proteste cilene contro la privatizzazione dell'istruzione sono state per i cileni il simbolo di una lotta per la giustizia sociale a tutto campo, per gli studenti italiani e di molti paesi europei sono state un modello cui guardare, consapevoli che il processo di dismissione dell'istruzione pubblica riguarda tutti. È per questo che le manifestazioni studentesche della stagione 2010-2011 italiane e cilene sono sempre sembrate complementari, come se la vera linea dell’equatore che separasse le une dalle altre fosse in realtà una linea temporale: mentre gli studenti cileni chiedevano di ritornare a un sistema pubblico, gli studenti italiani lottavano contro la privatizzazione”.
La risposta del governo di allora è stata da una parte quella di mostrare delle piccole aperture per far placare le acque, dall’altra si è concentrato a frenare le proteste con azione di repressione, violando in più occasioni i diritti costituzionali. Questo modus operandiha caratterizzato tutte le mobilitazioni in Cile, altro retaggio delle politiche pinochetiste, volte ad azzerare ogni forma di dissenso e opposizione, adottando forze di sicurezza come il corpo dei Carabineros, i principali autori delle violazioni compiute contro chi manifestava. Per mano di un carabinero morirà durante una delle proteste il 16enne Manuel Eliseo Gutiérrez Reinoso, colpito da una pallottola mentre camminava con il fratello e un amico.
Camila Vallejo, la figura del movimento più conosciuta in quel periodo, e Gabriel Boric si sono succeduti alla presidenza della Fech, Federazione studentesca cilena, alla guida entrambi delle manifestazioni del 2011. In piazza scendevano decine di migliaia di ragazze e ragazzi, paralizzando un paese intero che a quel punto non poteva non ascoltarli. Il momento di passaggio cruciale che ci avvicina allo scenario attuale si presenta quando i due attivisti con Giorgio Jackson, ex presidente della Federazione degli universitari cattolici (Feuc), entrano in parlamento grazie alla vittoria delle elezioni legislative del 2014. È da qui che inizia la loro carriera politica nelle file dei partiti e non più in piazza. Secondo Johannes Vera: "Inizia un percorso fatto anche di compromessi e strategie più legate a logiche di potere che alla necessità di dare risposte alla base sociale, che continuava a protestare nelle strade per la giustizia sociale e i diritti. I tre leader, a differenza delle altre organizzazioni sociali, già rispondevano a modelli partitici nel movimento studentesco, essendo divisi in liste e federazioni".
Sia il rappresentante sociale Vera, sia il giornalista Ortiz Núñez riportano che con alcune scelte questa classe politica emergente non ha sostenuto come avrebbe dovuto le rivolte sociali del 2019. Si tratta di mobilitazioni di centinaia di migliaia di persone che hanno portato il Cile, forse unico al mondo in quei mesi, a vivere con i ritmi dati dal coprifuoco ancor prima dell’arrivo della pandemia. In piazza con i movimenti studenteschi, i primi a ribellarsi contro l’aumento del costo dei trasporti pubblici , c’erano anche tantissime realtà sociali e popolari pronte a chiedere cambiamenti strutturali di un sistema che nel suo insieme restava corrotto ed elitario. "Non era pace, era silenzio” era la gigantesca scritta apparsa sull’obelisco di Plaza Italia ribattezzata “Plaza de la Dignidad”.
La tensione in quei mesi è alle stelle e le violenze contro i manifestanti all’ordine del giorno (il bilancio sarà alla fine di 27 morti, più di 3.600 feriti e oltre 22mila arrestati). L’arrivo della pandemia a marzo 2020 ha interrotto bruscamente la possibilità di scendere in piazza, ma non quel processo di trasformazione che era ormai in atto e che ha portato al Plebiscito nazionale del novembre 2020. Il referendum porta alla decisione di costituire un'Assemblea costituente incaricata di riscrivere la costituzione, eredità più scomoda della dittatura, così descritta dalla giornalista Gabriela Wiener: “La costituzione che ha permesso alle stesse persone di arricchirsi per tutti questi anni, impoverendo tutti gli altri, che ha privilegiato i militari e dimenticato i suoi pensionati. Una costituzione sessista che ha dimenticato le sue donne… una costituzione razzista che ha dimenticato i suoi indigeni. Una costituzione coloniale che ha rimosso la presenza dei mapuche”.
Le condizioni poste dal governo Piñera sulla Costituente saranno molto limitanti e verranno accettate anche dall’allora parlamentare Boric e da una parte del Frente Amplio, fatto che farà sollevare grandi critiche da parte di coloro che stavano puntando ad un processo di cambiamento integrale e senza compromessi. Tra queste condizioni si sancisce che vengano rispettati gli accordi internazionali, senza specificare quali. Dati i forti interessi dell'élite imprenditoriale, una tale misura è volta a garantire che non siano toccate le convenzioni commerciali ed economiche alla base dello sfruttamento dei territori e delle risorse naturali.
La distanza che si è in parte creata negli ultimi tempi con la base sociale più militante, protagonista dei tanti risultati politici raggiunti, non ha fatto desistere tutto il mondo dei movimenti sociali a schierarsi per far eleggere lo scorso dicembre 2021 l’ex leader studentesco, il più giovane presidente dell’America Latina e colui che ha presentato con la sua squadra il progetto politico più transformador e di rottura. Una squadra composta da ministre e ministri (più donne che uomini, di questo si è parlato molto nelle testate internazionali), espressione finalmente di un cambiamento culturale profondo della società civile cilena: plurale, ambientalista, femminista, interessata a tutelare e promuovere i diritti individuali e collettivi.
Riprendendo le belle parole dello scrittore Alejandro Zambra “i nostri fratelli minori, rappresentati dalla generazione di Gabriel Boric, hanno ucciso il padre. Hanno formato i loro propri partiti e si sono rifiutati di prendersi carico dei nostri traumi. Meritano per questo la nostra ammirazione, il nostro affetto e la nostra gratitudine". Si tratta, non c’è dubbio, di un governo di rottura con il passato, netta con le generazioni rappresentate dalla vecchia classe politica reazionaria e imprenditoriale, ma anche in buona parte da quei partiti di centro-sinistra che riuniti nella Concertación hanno governato il paese lungo il processo di transizione democratica dal 1990 al 2010. Visto da un’altra prospettiva, è anche un governo di continuità con gli avvenimenti sociali degli ultimi 15 anni, anni di rivendicazioni e di lotte, con protagoniste e protagonisti troppo giovani per ricordare chiaramente come si viveva sotto Pinochet. A partire da questa prima nuova fase, molto in questi mesi si giocherà sul piano della nuova Costituzione, che quest’anno dovrà essere approvata con un plebiscito de salida, “di uscita”, sperando che sia il primo effetto concreto del cambiamento in atto.
Intanto è diffusa nel paese la percezione di una prima vittoria delle proteste sociali, della vittoria di una collettività che non è stata fermata né dalle azioni di repressione, né dalla pandemia, la vittoria di giovani e meno giovani, delle comunità indigene, delle vittime delle violenze di genere e dello sfruttamento lavorativo. Un segnale di speranza necessario e importante per i tanti paesi latinoamericani che lottano contro governi autoritari e repressivi, molti dei quali in attesa della loro possibilità di riscatto, in occasione delle prossime elezioni.
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