Settembre 2021, mare Adriatico. Gli attivisti di Greenpeace Italy in azione alla piattaforma "Porto Corsini" platform, al largo di Ravenna, per denunciare il "Patto di finzione ecologica" (Lorenzo Moscia/Greenpeace)
Settembre 2021, mare Adriatico. Gli attivisti di Greenpeace Italy in azione alla piattaforma "Porto Corsini" platform, al largo di Ravenna, per denunciare il "Patto di finzione ecologica" (Lorenzo Moscia/Greenpeace)

Iniettare CO2 in Alto Adriatico: il progetto Ccs dell'Eni fermato dall'Ue

Si chiama Carbon capture storage. L'obiettivo è ammassare dalle 300 alle 500 milioni di tonnellate di anidride carbonica nei pozzi di petrolio al largo di Ravenna. Per gli scienziati è una strategia per dare nuova linfa alle attività estrattive

Virginia Della Sala

Virginia Della SalaGiornalista

21 febbraio 2022

Immaginate un bestione di ingranaggi in mezzo al mare, una piattaforma un tempo utilizzata per l’estrazione di petrolio e gas che invece di tirar fuori carburante inietti nel sottosuolo un liquido da scarti inquinanti. L’acronimo è Ccs e sta per Carbon capture storage, ovvero un sistema che cattura e poi stocca l’anidride carbonica emessa durante la produzione e la trasformazione di energia in modo da abbattere le emissioni inquinanti e rendere più sostenibili i processi industriali. In pratica, si corre ai ripari intervenendo alla fine della catena anziché al principio. Dato che per emissioni zero si intende in realtà emissioni "nette" zero: oltre a non aggiungere gas serra, nel bilancio si tenta anche a toglierne dall'atmosfera. Il primo progetto italiano in tal senso è targato Eni e compare per la prima volta nero su bianco sul bollettino degli idrocarburi a giugno 2021: al ministero della Transizione ecologica (Mite) pende la richiesta del cane a sei zampe per autorizzare il "programma sperimentale di stoccaggio geologico di anidride carbonica nei livelli esauriti del campo Porto Corsini Mare". Un investimento da oltre un miliardo di euro e tempi di partenza dal 2026. Eni chiede di poter iniettare la CO2 nei pozzi ormai esauriti a largo di Ravenna. Un progetto da cui ha tutto da guadagnare, contestato però da scienziati, enti locali e associazioni ambientaliste.

L'industria fossile, l'elefante nella stanza

Cos’è il Css e a cosa serve

Il Ccs è una tecnologia molto legata allo sviluppo dell’idrogeno, candidato per supportare la transizione energetica in ambito industriale e ad oggi – dopo lunghi tira e molla – ammesso da Bruxelles negli investimenti del Piano nazionale di ripresa resilienza solo nella sua formula verde. Oltre all’idrogeno grigio (ricavato da fonti fossili come avviene oggi nel 95 per cento dei casi), esistono infatti due tipi di idrogeno più puliti: quello verde, da fonti rinnovabili e con emissioni inquinanti tendenti allo zero, e quello blu, legato sempre al gas naturale, accoppiato a un sistema di cattura e stoccaggio della CO2 che permetterebbe di abbattere il netto delle emissioni climalteranti. L’idrogeno blu è più economico rispetto a eventuali investimenti sull’elettrolisi, cioè la produzione di idrogeno verde dall’acqua. Secondo alcune stime, per compensare le sue emissioni, una quantità di metano equivalente al 45 per cento dei consumi attuali avrebbe bisogno di catturare ogni anno 460 milioni di tonnellate di CO2 e di immagazzinarla in circa 150 impianti di stoccaggio. Il confronto è presto fatto: nel caso dell’idrogeno da rinnovabili servirebbero investimenti fino a 410 miliardi di euro negli impianti di elettrolisi oltre 1.300 miliardi nelle tecnologie di alimentazione. Nell’altro, investimenti fino a 140 miliardi di euro e di almeno 47 miliardi di dollari di costi per il gas naturale da cui sintetizzarlo.

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