Ravenna, 14 dicembre 2018. Le emissioni del polo chimico (Foto di Michele Lapini)
Ravenna, 14 dicembre 2018. Le emissioni del polo chimico (Foto di Michele Lapini)

L'industria fossile è l'elefante nella stanza

Da 40 anni le multinazionali del gas e del petrolio usano le tecniche più spregiudicate per minare l'azione globale sul clima. La Cop26 è solo l'ultimo esempio

Francesca Dalrì

Francesca DalrìGiornalista, il T quotidiano

21 febbraio 2022

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Alla Cop26 di Glasgow (la Conferenza delle parti delle Nazioni unite sul cambiamento climatico) erano 503: la delegazione più numerosa. Rappresentanti di oltre cento aziende responsabili, da sole, del 71 per cento delle emissioni climalteranti globali rilasciate in atmosfera dal 1988 – e il cui abbattimento è da sempre al centro dei negoziati sul clima –.  Pagati per difendere gli interessi dei giganti dei combustibili fossili. "Molti lobbisti che abbiamo identificato a Cop26 erano accreditati come membri delle delegazioni nazionali – racconta a lavialibera Barnaby Pace dell’ong Global witness –. Avevano accesso ai negoziati a porte chiuse che stanno alla base di ogni Cop e hanno potuto influenzarli". Secondo le ricostruzioni del sito eco-bot.net, prima e durante i negoziati, il settore fossile ha tentato di orientare il dibattito anche sui social network, facendo lievitare il numero di post ingannevoli sulla crisi climatica diffusi su Facebook, Twitter e Instagram.

Una pratica non nuova, dato che le cinque maggiori compagnie di petrolio e gas quotate in Borsa (ExxonMobil, Shell, Chevron, BP e TotalEnergies) hanno investito in pubblicità e attività di lobby oltre un miliardo di dollari nei tre anni successivi all’accordo di Parigi del 2015, come riportato dal rapporto di InfluenceMap del 2019. Insomma, un elefante nella stanza, che da 40 anni utilizza le tecniche più spregiudicate per difendere se stesso e minare l’azione globale sul clima.

 

Ambiente ed energia, la carica delle lobby italiane

Bugie dalle gambe lunghe

"La comunità scientifica concorda sul fatto che il modo più probabile in cui l’umanità sta influenzando il clima globale è attraverso il rilascio di anidride carbonica tramite la combustione di combustibili fossili". Siamo nel luglio del 1977 e a parlare è lo scienziato James F. Black. Davanti a lui ci sono i suoi datori di lavoro: i vertici del gigante statunitense del petrolio ExxonMobil, che in Italia opera con il marchio Esso. "Abbiamo una finestra temporale tra i cinque e i dieci anni prima che la necessità di decisioni difficili riguardo al cambiamento delle strategie energetiche diventi critica", scrive ancora Black nel 1978. Come rivelato nel 2015 da Inside climate news, gli scienziati della ExxonMobil avevano compreso prima di altri la crisi climatica cui l’umanità stava andando incontro. E proprio per questo nei decenni successivi l’azienda ha alimentato "dubbi sul riscaldamento globale", facendo pressione per "bloccare l’azione federale e internazionale".

Nella sua azione di negazionismo climatico, ExxonMobil è stata da subito in buona compagnia. Nel 1989 viene fondata la Global climate coalition (Coalizione globale per il clima) che – a dispetto del nome – raggruppava colossi petroliferi come Shell, BP, Chevron. Obiettivo: sfidare la scienza alla base del riscaldamento globale con editoriali sui principali quotidiani, dibattiti pubblici, falsi articoli scientifici.

La guerra delle parole

"L’espressione cambiamento climatico è divenuta di uso comune grazie a Frank Luntz, lo scrittore dei discorsi di Bush: una precisa strategia politica per non far sembrare la crisi climatica un problema grave"Maria Cristina Caimotto - professoressa all’Università di Torino

Alle multinazionali del petrolio si affiancano presto i cosiddetti petrolstati. È il 1995 e a Madrid è in corso la plenaria conclusiva dell’Ipcc. Si discute della possibilità di affermare con certezza che i cambiamenti climatici siano causati dall’uomo. Nel riassunto per i responsabili delle decisioni politiche si parla di "un’apprezzabile influenza umana sul clima". Ma per il delegato saudita l’aggettivo "apprezzabile" è troppo forte. Dopo ore di dibattito, il presidente dell’Ipcc propone così un altro termine: "discernibile". Un aggettivo che riconosce l’impatto delle attività umane, ma concede un sufficiente grado di incertezza per soddisfare i petrolieri sauditi. Difficile ignorare la somiglianza con quanto avvenuto a Glasgow lo scorso novembre alla Cop26. Il patto finale è stato annacquato rispetto all’accordo iniziale: invece di "phase-out" (eliminazione progressiva) del carbone, all’ultimo Cina e India hanno preteso si scrivesse "phase down" (riduzione). 

Nella battaglia contro i cambiamenti climatici le parole hanno giocato da subito un ruolo centrale. "L’espressione cambiamento climatico – spiega Maria Cristina Caimotto, professoressa all’Università di Torino e coautrice del volume Lessico e nuvole, pubblicato dallo stesso ateneo – è divenuta di uso comune grazie a Frank Luntz, lo scrittore dei discorsi di Bush: una precisa strategia politica per non far sembrare la crisi climatica un problema grave". Luntz suggerì di addottarla a discapito dell’espressione riscaldamento globale, troppo forte e minacciosa, in un memorandum dal titolo promettente: Ambiente: un’America più pulita, sicura e sana. Autore del bestseller Le parole che funzionano: non conta quello che dici, ma quello che le persone sentono, il consulente di Bush sapeva meglio di chiunque altro che le parole sono importanti. 

Alla Cop26 c'è stato un discorso diverso dagli altri. Leggi l'analisi di Maria Cristina Caimotto

Il climategate

Facciamo un salto in avanti e arriviamo al 2009. A Copenaghen è in programma la Cop15. Molti pensano che i tempi siano maturi per un accordo globale sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Le aspettative sono così elevate che tra gli ambientalisti non si parla di Copenaghen ma di Hopenaghen giocando sulla parola inglese hope: speranza. Invece scoppia lo scandalo, il cosiddetto climategate: un mese prima dei negoziati, un hacker viola il server dell’unità di ricerca climatica dell’Università dell’East Anglia, in Inghilterra, sottraendo migliaia di mail e documenti che scienziati di tutto il mondo si erano scambiati negli anni. "Frammenti e brani delle mail furono abilmente ricombinati e decontestualizzati per creare un’immagine falsata sia della scienza sia degli scienziati", racconta il climatologo Michael Mann (leggi qui l'intervista), anch’egli vittima dello scandalo (e di diverse minacce di morte). Per molti quella diventa la prova schiacciante di come il riscaldamento globale sia solo il frutto di un complotto globale. Numerose inchieste negli Usa e nel Regno Unito scagioneranno da ogni accusa tutti gli scienziati. Ma nel frattempo l’allora capo dei negoziatori sauditi Mohammad al-Sabban può affermare: "Dai dettagli dello scandalo emerge che non esiste alcuna relazione tra attività umane e cambiamenti climatici". Per Mann il climategate "ha segnato il punto critico in cui le forze del negazionismo e dell’inazione hanno capito che non era più possibile individuare argomenti credibili (e in buona fede) contro la scienza dei cambiamenti climatici, e quindi hanno iniziato a utilizzare strategie nuove e più spregiudicate".

Soluzioni non-soluzioni

Oggi per Mann i negazionisti puri sono stati "rimpiazzati da altre tipologie di imbroglioni e ipocriti, ossia minimizzatori, depistatori, creatori di divisioni, posticipatori e menagrami, tutti impegnati in una strategia articolata che ha l’obiettivo di spostare le responsabilità, polarizzare il pubblico e ritardare l’azione, promuovendo soluzioni alternative che non risolvono davvero il problema". Per farlo hanno elaborato "un lessico nuovo e apparentemente incoraggiante, con termini quali geo-ingegneria, carbone pulito, combustibili ponte, adattamento, resilienza". Secondo il climatologo, queste "soluzioni non-soluzioni" sono: il gas naturale; la tecnologia Ccs per la cattura e il sequestro della CO2 (come il progetto di Eni a Ravenna raccontato a pagina x); la geo-ingegneria (un approccio che utilizza interventi tecnologici su scala mondiale nella speranza di compensare il riscaldamento globale); piantare alberi; il nucleare. La prima e l’ultima ci riportano alla discussione che dal primo gennaio 2022 divide l’Europa: l’inserimento del gas fossile e del nucleare nella tassonomia europea che definirà quali investimenti sono da considerarsi verdi, quindi finanziabili. Secondo la mappatura realizzata da InfluenceMap, 318 aziende e associazioni di settore si sono impegnate in attività di lobby sulla tassonomia dall’inizio del 2019 (Leggi l'articolo sulla tassonomia Ue per la finanza sostenibile), per un totale di 120 milioni di euro l’anno spesi: l’equivalente di 950 lobbisti a tempo pieno. Risorse che sembrano ora dare i loro frutti se si considera che, secondo gli esperti della Piattaforma per la finanza sostenibile a cui la Commissione europea si è rivolta per la stesura dei cosiddetti atti delegati, né il gas né il nucleare andrebbero inclusi nella tassonomia.

La direttiva Ue sulle rinnovabili finanzia gli impianti a biomasse per emettere CO2

La più grande minaccia: i giovani attivisti

"Da decenni le aziende fossili conoscono l’impatto delle loro attività. Eppure continuano a promuovere il loro business con pubblicità e sponsorizzazioni. È il momento di dire basta"Campagna Ban fossil fuel ads

Dopo 40 anni di negazionismo prima e tentativi di ritardare l’azione globale poi, qualcosa però è cambiato. La pandemia e gli ultimi disastri meteorologici, come le alluvioni che lo scorso luglio hanno colpito la Germania e il Belgio provocando la morte di quasi 200 persone, hanno reso più evidente l’impatto dei cambiamenti climatici. Non solo: dal primo sciopero globale per il clima del 15 marzo 2019, milioni di giovani attiviste e attivisti hanno mobilitato le piazze di tutto il mondo chiedendo ai potenti della Terra di agire. E hanno lasciato il segno: nel luglio 2019 Mohammed Barkindo, segretario generale dell’Opec, il cartello formato dai 13 Paesi che controllano l’80 per cento delle risorse mondiali di petrolio, li ha definiti "probabilmente la principale minaccia per il futuro della nostra industria". Specificando, neanche a dirlo, che si tratterebbe di rivendicazioni "non scientifiche".

Oggi sono in molti a credere che la battaglia per il clima possa e debba diventare una priorità per chiunque. Una coalizione di organizzazioni no profit e gruppi della società civile ha promosso un’Iniziativa dei cittadini europei (uno strumento di partecipazione diretta alla politica Ue) per vietare nel continente la pubblicità e la sponsorizzazione dei combustibili fossili (banfossilfuelads.org). Il divieto riguarderebbe tutti i veicoli che utilizzano petrolio, gas fossile o carbone (eccezion fatta per i veicoli destinati ai servizi di trasporto di interesse economico generale) e tutte le imprese che estraggono, raffinano, producono, forniscono, distribuiscono o vendono tali combustibili. Obiettivo: raccogliere entro il prossimo 16 giugno un milione di firme in almeno sette Stati membri. Se ci riusciranno, la Commissione sarà obbligata a esaminare la proposta legislativa. "Da decenni le aziende fossili conoscono l’impatto delle loro attività – scrivono i promotori –. Eppure continuano a promuovere il loro business con pubblicità e sponsorizzazioni. È il momento di dire basta".

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