Guerra in Ucraina, le parole sono bombe. Noi scegliamo il silenzio

Lavialibera aderisce alla manifestazione organizzata dal Gruppo Abele per denunciare l'inerzia della politica e degli interessi economici che fanno scoppiare le guerre, con un'ora di silenzio. L'appuntamento è sabato 9 aprile alle 11, in piazza Carignano, a Torino

Fabio Cantelli Anibaldi

Fabio Cantelli AnibaldiScrittore

28 marzo 2022

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Aggiornamento: Lavialibera aderisce alla manifestazione organizzata dal Gruppo Abele per denunciare l'inerzia della politica e degli interessi economici che fanno scoppiare le guerre, con un'ora di silenzio. L'appuntamento è sabato 9 aprile alle 11, in piazza Carignano, a Torino. Invitiamo tutti a partecipare senza loghi o bandiere con un indumento bianco addosso. La riflessione di Fabio Cantelli Anibaldi. Per saperne di più.

Se il domandare è "pietà del pensiero", come scrisse Heidegger, il silenzio è madre. Non però silenzio in quanto interruzione di discorso o sospensione di parola, ma silenzio come capacità – meglio, coraggio – di fare il vuoto dentro di sé affinché emergano le domande cruciali: quelle che, impietosamente, ci mostrano la nostra realtà di esseri disorientati, disarmati, ignoranti. Esseri che, mentre brancolano nel buio, cercano grottescamente di riempirlo di parole, ignari che è proprio quel buio interiore che andrebbe indagato per conoscere sé stessi e dare alla propria vita un barlume di senso.

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In un buio pesto infestato di parole l’Occidente brancola ormai da due anni: prima la mattanza del Covid e adesso quella della guerra

Bisogna però intendersi sulla parola “complesso”, perché è una parola a rischio di banalizzazione e quindi di falsificazione

Ma che aspetto ha questo buio che fa straparlare gli umani? Direi un aspetto indefinibile perché complesso. Bisogna però intendersi sulla parola “complesso”: parola a rischio di banalizzazione quindi falsificazione, visto il suo ricorrere ormai nel cosiddetto dibattito pubblico, dove è quasi regola il parlare a vanvera. Complesse sono infatti le situazioni in cui non si sa cosa fare perché il problema si presenta come un insieme di parti interdipendenti e inseparabili.

Avviluppate in certi casi al punto che è impossibile capire dove inizia l’una e finisce l’altra, punto cieco dove il buio tocca lo zenith e il “complesso” appare piuttosto un amplesso, un comprendersi e un compenetrarsi di vita. Palpitante e mobile totalità irriducibile alla chirurgia della ragione analitica, quella che tutto vorrebbe distinguere, separare, classificare. Serva zelante della morale, che dalle distinzioni “razionali” ricava perimetro e confini della sua fortezza: qui il bene là il male e, di seguito, nelle loro infinite gradazioni, il giusto e l’errato, il buono e il crudele, il compiuto e l’imperfetto, il lecito e il proibito, il funzionale e il difettoso, l’ortodosso e l’eretico. Bandiere che l’umanità ha issato per giustificare crociate e cacce alle streghe e, oggi, la pedagogia ortopedica del “politicamente corretto” con cui l’Occidente secolarizzato rimette “laicamente” in riga l’esorbitante e l’eccentrico della vita, vale a dire la sua costitutiva complessità

Sì perché la complessità non è un incidente di percorso: la complessità è un “nodo di Gordio” metafisico impossibile da sciogliere senza ferire la vita stessa. Nodo capace comunque di resistere alla spada di patetici epigoni di Alessandro Magno come Vladimir Putin, ma anche alle sofisticate analisi di dotti e compunti interpreti della ragione occidentale.

Scegliere tra vita e libertà

Emblematica a riguardo una recente riflessione del teologo e filosofo Vito Mancuso pubblicata su La Stampa: “Vale di più la vita o la libertà? La guerra costringe a scegliere”. Mancuso osserva che in situazioni come l’invasione russa dell’Ucraina la coscienza c’impone di scegliere da che parte stare tra la vita, che è "la nostra dimensione fisica" e la libertà, "che è la nostra dimensione morale". Ecco, Mancuso, che pure ha scritto cose profonde e ammirevoli, si ferma in questo caso sulla soglia della complessità, dove lo conduce quell’appellarsi alle "questioni di principio" tipico dei pensatori che non hanno capito o forse nemmeno letto La genealogia della morale di Friedrich Nietzsche, dove per la prima volta è stata svelata l’aspirazione normativa e dominatrice della morale e dei suoi sgherri: gli “assoluti”.  

Si prenda, ad esempio, la parola “vita”. Nessuno mette in discussione che il fatto stesso di vivere sia fondamentale, ma altrettanto lo è il come vivere perché una vita reclusa o schiavizzata può essere anche peggio del morire. Ecco allora che la distinzione di Mancuso tra vita e libertà non sta in piedi perché non si tratta di assoluti “fisici” e “morali”, ma dimensioni che si sostanziano l’una con l’altra e l’una dell’altra: una vita senza libertà è una condanna a vita e una libertà senza vita una pura astrazione, un nulla di fatto. Complesse sono insomma le situazioni in cui la vita si manifesta nella sua sbalorditiva meraviglia di assoluto relativo, assoluto nel relativo: ambivalenza che manda in tilt la logica della “ragione” oppositiva e moralizzatrice nonché gli oceani di opinioni, commenti e chiacchiere che ne derivano a ogni istante e a ogni latitudine.

Una vita reclusa o schiavizzata può essere anche peggio del morire

E qui torno alla necessità del silenzio come madre del pensiero. Se è vero che c’è un istintivo tacere suscitato dalla riverenza, dal tremore o dall’imbarazzo (ma anche dallo stupore, dalla gioia, dalla commozione) il ciarliero uomo d’Occidente è ormai incapace di quel silenzio. Incapace perché inibito dal bisogno di neutralizzare o almeno controllare la sua emotività, per cui ogni espressione di complessità – cioè di sacro, se liberiamo la parola sacro dal chiuso delle sacrestie – viene bombardata di parole, analisi e giudizi nell’ansia di ricondurla a “ragione” e soffocarne così lo scandalo.

Ma solo quel silenzio può ricondurci a noi stessi e farci capire l’orrore che siamo diventati: individui che, di fronte a una guerra, sembrano più preoccupati di capire da che parte “militarmente” schierarsi e ovviamente di renderlo noto invece di fermare prima possibile e con ogni mezzo la mattanza. Ed è solo da quel silenzio che possono scaturire pensieri alti e parole di pace, parole che esprimano la complessità che tutti comprende facendoci riconoscere non sono gli uni e gli altri ma gli uni per gli altri: bianchi, gialli e neri, giovani, vecchi e adulti, donne, uomini e non binari, russi e ucraini, palestinesi e israeliani. Ecco allora che c’è una profonda connessione – direi un reciproco alimentarsi – tra il fragore dell’artiglieria di Putin e la chiacchiera e il giudizio universali che da quasi un mese ne accompagna il bombardamento. Se il domandare è pietà del pensiero, il giudicare è violenza, violenza che equivale di fatto a un suicidio perché un pensare che giudica non è più un pensare.

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Sarebbe allora auspicabile tacere, raccogliersi, meditare per imparare ad amare riconoscendo il bisogno d’essere amati che arde in ciascuno di noi, bisogno impossibile da soddisfare senza apprendere la gentilezza e la mitezza, le sole armi della nostra spuntata e traballante condizione umana.

Se il domandare è pietà del pensiero, il giudicare è violenza

Il silenzio come strumento

Concludo quest’elogio del silenzio vagabondo e meditabondo, comunque non occasionale, lasciando la parola a due maestri della parola essenziale, quella che scaturisce dal potente silenzio della filosofia e della letteratura. Maestri che mi hanno indicato la via della complessità, via che insegna a “non darsi pace” fino a toccare il vertice della pace: quella di un’anima che ha come sola patria la sua inquietudine.

Parlo di Ludwig Wittgenstein e di Jorge Luis Borges. Wittgenstein conclude il Tractatus con una proposizione all’apparenza sibillina che ha generato biblioteche di glosse e interpretazioni: "Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere". Non si tratta di una censura, ovviamente, ma di un invito al raccoglimento silenzioso necessario affinché il pensare, arrivato sulla soglia non delle “questioni di principio” ma delle cose ultime, trovi parole all’altezza della loro profondità.

Quindi I giusti di Borges, poesia dove sono descritte una decina di persone intente a compiere atti del tutto normali e rigorosamente non pubblici. Atti sfuggiti alla regia dell’io e alla sua ansia di protagonismo qualunque cosa faccia, anche “opere di bene”, atti tuttavia compiuti con quel misto di dedizione e abbandono che solo, giocando, abbiamo conosciuto da bambini. I “giusti” di Borges sono, per dire, "un uomo che coltiva il suo giardino" o "chi accarezza un animale addormentato". Persone che, puntualizza il poeta, "si ignorano" e che, recita il verso conclusivo, "stanno salvando il mondo". Ebbene tra i “giusti” Borges include anche "chi preferisce che abbiano ragione gli altri": frase che, per contrasto, rivela la follia di questa e di tutte le guerre, nonché delle contrapposte analisi che, in nome di una ragione esclusiva quanto aggressiva, ne stanno accompagnando la carneficina.

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