Aggiornato il giorno 21 aprile 2022
“Il ritorno al carbone non è un tabù per uscire dalla crisi del gas”. Le parole di Frans Timmermans ai microfoni della Bbc rendono bene l’idea delle difficoltà energetiche in cui sta annaspando l’Europa da quando è scoppiata la guerra tra Russia e Ucraina. E anche degli appetiti che l’emergenza ha riacceso. Il politico olandese, infatti, è commissario europeo per il Clima e il Green Deal. Detto in altre parole, è colui che tira le fila della transizione energetica continentale, quella che dovrebbe condurre l’Europa fuori dalla dipendenza dai combustibili fossili. L’ultima persona, quindi, che dovrebbe arrendersi ad un ritorno del carbone. Dichiarazioni molto simili le ha rilasciate il ministro dell’Ambiente tedesco, Roberto Habeck che non ha escluso che la Germania possa decidere di ritardare l’abbandono graduale del carbone e del nucleare, affrettandosi però a precisare che non è una buona idea rallentare la transizione verso le energie rinnovabili. Anche la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha rassicurato sul futuro della transizione energetica, affermando che questo è il momento “per investire massicciamente sulle rinnovabili”. La battaglia, però, è appena iniziata e i nemici del nuovo corso green stanno solo affilando le armi. D’altronde, il mercato energetico muove cifre e interessi capaci di esercitare enormi pressioni.
Cosa sono la transizione elettrica e la decarbonizzazione
Indubbiamente, il problema c’è ed è tutt’altro che di semplice risoluzione. Infatti, la crisi internazionale seguita all’invasione russa dell’Ucraina ha scoperchiato il vaso di pandora del mercato degli approvvigionamenti energetici, disvelando la cronica dipendenza dell’Europa da Mosca. Che poi è anche il motivo degli iniziali tentennamenti sulle sanzioni economiche con cui contrastare Putin, destinate inevitabilmente a ferire gravemente anche chi le commina.
Qualche numero può aiutare a rendere più nitido il quadro. Ogni anno, secondo i dati Ispi, sono oltre 155 i miliardi di metri cubi di gas che dalla Russia arrivano in Europa, passando per gasdotti che attraversano Bielorussia, Ucraina, mar Nero e mar Baltico. Una quantità davvero ingente, che rappresenta il 45 per cento di tutte le importazioni europee di gas e supporta una quota di consumi pari al 40 per cento.
A dipendere maggiormente da Mosca sono i paesi dell’Est Europa e quelli dei Balcani (che importano quasi esclusivamente gas russo), a cui si aggiungono Austria (l’80 per cento del gas acquistato viene dalla Russia), Finlandia (66,5%), Germania (51,2%), Italia (40%), Grecia (39%) e Olanda (26,3%). La situazione italiana, però, appare particolarmente delicata, perché è il paese la cui produzione energetica è più legata al gas (41,6%).
Queste cifre non sono certe una sorpresa e sono giustificate anche dall’enorme peso internazionale che la Russia ha nell’estrazione di combustibili fossili, visto che è il terzo produttore di petrolio (12%) e il secondo di gas (17%). D’altra parte, è giusto precisare come la dipendenza sia bilaterale: anche Mosca, infatti, farebbe fatica a rinunciare ai suoi partner commerciali europei, dato che gli garantiscono incassi a molti zeri (240 miliardi di dollari per il gas, solo nel 2021).
Crisi del gas e crescita lenta delle rinnovabili
“Siamo troppo dipendenti dalla Russia. Dobbiamo diversificare le forniture, puntando in particolare al gas naturale liquefatto; dobbiamo aumentare la condivisione delle rinnovabili”Ursula von der Leyen - Presidente Commissione europea
Su questo intreccio di convenienze, alimentato da anni di politiche energetiche che hanno diminuito l’autosufficienza europea, è piombata la mannaia del conflitto ucraino, con il suo strascico di sanzioni e minacce. Da una parte l’Europa, a cui i fatti hanno ricordato la propria fragilità; dall’altra parte la Russia, che paventa il blocco delle forniture ma per attuarlo deve trovare compratori altrove (e potrebbe corrergli in soccorso la Cina). Assorbito il colpo e fiutato il pericolo, il vecchio continente sta provando a prendere le contromisure, settimana dopo settimana. La crisi bellica, però, ha travolto i governi europei proprio mentre si accingevano a fare i primi passi verso una solida transizione energetica, recependo le istanze dei movimenti ecologisti. E in questa fase di passaggio, il gas avrebbe dovuto ricoprire (il condizionale ormai è d’obbligo) il ruolo di ponte tra un passato dominato dal carbone e un futuro affidato alle energie rinnovabili. Ironia della sorte: solo un mese fa la Commissione europea aveva definito il gas un investimento sostenibile, facendo storcere il naso a più di qualche ambientalista.
Ora, invece, la strategia è tutta da ripensare, per riparametrarla ad un nuovo obiettivo: ridimensionare il potere di Mosca. “Siamo troppo dipendenti dalla Russia – ha sottolineato von der Leyen a margine del vertice di Versailles –. Dobbiamo diversificare le forniture, puntando in particolare al gas naturale liquefatto; dobbiamo aumentare la condivisione delle rinnovabili”. Un’indipendenza che, sempre secondo la Presidente della Commissione europea, può essere raggiunta entro il 2027. Ma è proprio sui tempi che il dibattito è destinato a polarizzarsi. Se da una parte le soluzioni di lungo termine sono auspicabili, dall’altra c’è bisogno anche di azioni con ricadute immediate. Nel frattempo, infatti, i costi delle materie prime sono cresciuti vertiginosamente, trascinando con sé anche i prezzi dei beni al consumo, a cominciare dalla benzina (un exploit figlio anche della speculazione, come ha sottolineato il ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani in audizione al Senato, definendo gli aumenti “ingiustificati”).
Come porre un argine a tutto ciò? Le ricette a cui i paesi europei stanno lavorando sono diverse. C’è chi sceglie di guardare indietro, puntando a rimpiazzare il gas con il carbone, almeno nell’immediato, chi sta valutando un potenziamento del nucleare e chi decide di puntare sul gas naturale liquefatto, acquistabile da Stati Uniti, Medio Oriente e Africa, ma che ha bisogno di essere raffinato.
La Germania, ad esempio, è tra coloro che tamponeranno l’emergenza puntando sul nucleare: riaccendendo tre centrali spente nel 2021 e mantenendo in attività le altre tre, che si sarebbero dovute fermare nel 2023. Allo stesso tempo, però, il governo tedesco ha deciso di accelerare l’investimento sulle rinnovabili, per anticipare al 2035 la data in cui il paese sarà in grado di soddisfare tutto il suo fabbisogno di energia con fonti pulite. Rafforzare l’impegno sulle rinnovabili è anche la traiettoria suggerita da Timmermans, che le ha definite “la nostra energia pulita, economica e infinita”.
La Francia, invece, sta pensando di affidarsi al gas liquido e ha riavviato il dialogo con la Spagna, unico paese ad aver già investito in questa direzione e che possiede un terzo delle capacità di rigassificazione di tutta l’Europa. L’ipotesi allo studio sarebbe un nuovo gasdotto attraverso i Pirenei. Progetto che in passato proprio la Francia aveva più volte scartato. In questo modo, Parigi avrebbe accesso più facile all’importazione di gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti e dal Nord Africa.
L'industria fossile è l'elefante nella stanza
L’idea di affidarsi alla Spagna e di aumentare le importazioni di Gnl nordafricano è sul tavolo anche di Mario Draghi. L’Italia, secondo questa linea, potrebbe puntare a costruire un cartello che coinvolga, oltre a Madrid, anche Portogallo e Grecia.I tempi dell’operazione, però, non sono rapidi. Quindi serve anche un’alternativa da mettere in campo immediatamente. Ed è in questo spazio che si stanno affollando tutti gli orfani dei combustibili fossili e gli scettici della svolta green. Il presidente del Consiglio, infatti, ha dichiaratamente lasciato la porta aperta al loro ingresso nel dibattito, affermando in parlamento che “potrebbe essere necessario riaprire centrali elettriche a carbone per colmare eventuali carenze a breve termine”. Il carbone, ancora lui. Le centrali in questione sarebbero quella Enel di La Spezia e quella A2A di Monfalcone. In questo modo, però, parte del problema verrebbe solo spostato dal gas al carbone, perché anche le forniture di quest’ultimo arrivano per il 50 per cento dalla Russia e andrebbero sostituite.
Il governo autorizza nuove centrali: l'Italia va a tutto gas
“Serve rinegoziare il Pnrr; c’è la gente da sfamare e quei progetti ormai sono fuori dal tempo”Luca Zaia - Presidente del Veneto
Ma non è solo il ritorno al carbone a stimolare gli appetiti di una parte del settore energetico. Sul piatto, infatti, c’è un boccone ancora più ghiotto: il Piano nazionale di ripresa e resilienza. A pochi mesi dalla sua approvazione, a detta di molti, il Pnrr sarebbe già superato e da riscrivere, invecchiato precocemente proprio a causa della crisi Russia-Ucraina. Matteo Salvini, leader della Lega, lo ha definito addirittura un documento archeologico. All’interno del suo stesso partito, gli fa eco Luca Zaia: “Serve rinegoziare il Pnrr; c’è la gente da sfamare e quei progetti ormai sono fuori dal tempo”. Il governatore del Veneto, testa d’ariete di molti presidenti di regione che la pensano come lui, si è spinto anche oltre e ha proposto di destinare parte dei fondi alla creazione di micro centrali nucleari. Anche il leader del Pd Enrico Letta ha aperto alla possibilità di mettere mano al Piano, affermando che il Governo italiano dovrebbe farsi portavoce, in Europa, della richiesta di uno slittamento al 2027 del Pnrr, in modo da poter “rimodulare i progetti per presentare i bandi”. Anche dalle parti di Confindustria il pressing è forte. Il presidente Carlo Bonomi ha detto esplicitamente che “si deve riscrivere il Pnrr e allungarlo temporalmente”, per poi mettere nel mirino proprio la transizione ecologica, chiedendo di spostarne gli obiettivi. Inoltre, ha invitato il governo a snellire la burocrazia in tema di rinnovabili. Draghi, però, per ora frena e sembra voler tenere duro sul Pnrr così com’è. D’altra parte, il premier è consapevole che la maggioranza è fragile, ed essere d’accordo sulla necessità di riscrivere il Piano non significa anche esserlo sul tipo di modifiche necessarie. Inoltre, la modifica del Piano è possibile tecnicamente ma molto complessa da attuare.
C’è da scommettere, però, che le pressioni non si fermeranno ma tenderanno a crescere. I soldi in ballo sono molti, oltre 200 miliardi, di cui 42 già quest’anno. Un bottino che fa gola a molti. Intanto, il 21 aprile la Lega ha chiesto di eliminare dalle proposte parlamentari per il Def (Documento di economia e finanza), la riduzione degli incentivi e degli sgravi che riguardano beni e operazioni dannose per l'ambiente, ossia i cosiddetti sussidi ambientalmente dannosi (Sad), come l'accisa ridotta per il gasolio, le agevolazioni per le auto aziendali, i sussidi per il mondo del petrolio.
La guerra è diventata un ottimo pretesto per riaprire partite che sembravano chiuse.
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