Foto di Mohamed Lammah/Unsplash
Foto di Mohamed Lammah/Unsplash

Una politica della nonviolenza

I pigmei del Congo sanno che l'akami (rumore, disordine) può degenerare in violenza. Per tenerlo sotto controllo serve ekimi, cioè calma, ordine e silenzio. La lezione di un popolo che vuole vivere in sintonia con la foresta e gli altri umani

Francesco Remotti

Francesco RemottiProfessore emerito di Antropologia culturale dell'Università di Torino

17 maggio 2022

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Ci sono gruppi umani che – in modo consapevole – hanno cercato soluzioni di convivenza. Pensando a qualcosa di alternativo rispetto alle stragi di cui gli uomini si dimostrano così insistentemente capaci (stragi di cose naturali e artificiali, stragi di altre specie animali e vegetali, stragi di altri esseri umani), mi sono tornate in mente due popolazioni che ho incontrato nel corso delle mie ricerche nell’Africa equatoriale. Non faremo dunque un discorso filosofico sulla natura umana (buona o cattiva che sia). Questo è un contributo impressionistico, sentimentale, esotizzante e ci limiteremo invece a rievocare contesti ed esperienze di tipo opposto. Sarà dunque un modesto contributo di tipo etnografico.

La natura ci insegna la vita

Un popolo in lotta, l’altro in armonia

Le mie ricerche in Africa equatoriale si sono svolte in un esteso arco di tempo (dal 1976 al 2013) presso i BaNande del Nord Kivu (Repubblica democratica del Congo), un’etnia di coltivatori che alla base della propria cultura ha posto la lotta (oluhi, guerra) contro la foresta: distruggere la foresta, fare strage di alberi, per costruire campi e villaggi. Fin dall’inizio, ho sempre avvertito la presenza dei pigmei BaMbuti nella foresta dell’Ituri come una netta alternativa culturale ed ecologica rispetto ai BaNande. Se per i BaNande è il coltellaccio che essi portavano sempre con sé ad essere padre e madre, i BaMbuti – in perfetta antitesi – dicono che padre e madre è la foresta. Nelle mie ricerche mi sono soffermato a lungo sul tormento dei BaNande (il loro rimorso nei confronti della foresta). Ora, però, avverto l’esigenza di ritornare mentalmente tra i BaMbuti per condividere con i miei eventuali lettori la scelta di questi gruppi a favore della convivenza. Lo farò utilizzando un saggio del 1978 che Colin Turnbull aveva dedicato alla loro politica della nonviolenza.
I BaMbuti conoscono molto bene l’aggressività tipica delle società di coltivatori, che – come i BaNande – vogliono strappare il territorio alla foresta. Più in generale, essi sanno che cosa vogliono dire violenza e ostilità: proprio per questo si ingegnano a disinnescare i meccanismi che possono generare comportamenti aggressivi. 

I BaMbuti si ingegnano a disinnescare i meccanismi dell’aggressività, ad esempio insegnando ad amare l’ambiente sin dal ventre materno

Fin dall’inizio, fin da quando il piccolo di umano si trova ancora nel grembo materno, gli insegnano ad amare la foresta. Le donne incinte inventano ninna-nanne personalizzate, con cui si rivolgono direttamente ai loro nascituri, partendo dalla convinzione che il feto sappia udire e comprendere quello che gli viene detto. Le mamme si recano spesso da sole nei loro luoghi preferiti in foresta. Si immergono nei corsi d’acqua dondolandosi e agitando lievemente mani e piedi. Cantando pronunciano frasi semplici, con le quali preannunciano al loro piccolo che la foresta buona e gentile lo accoglierà con il suo calore. Il piccolo verrà al mondo nel cuore della foresta e dopo pochi giorni comincerà a essere accolto dal gruppo di cui farà parte. 

Secondo Turnbull, i BaMbuti fanno di tutto affinché il neonato non avverta troppa differenza nel passaggio dal grembo materno al grembo sociale e ambientale. Non si tratta di nascondere i pericoli del mondo esterno, ma di indurre i bambini ad affrontarli con la sicurezza che il gruppo – i loro pari, i loro genitori e gli adulti – può offrire. Imparerà così che più della competizione vale la solidarietà, più che la violenza vale l’accordo, l’intesa, l’amicizia. Il giovane sa, conosce la violenza: impara a uccidere gli animali nelle battute di caccia. Sa anche però che deve dominare la violenza, così che essa non si estenda al di là di un certo ambito. Fin da piccolo si rende conto che è più gratificante giocare con gli altri, anziché contro gli altri, e che è molto più importante ricorrere al riso – un riso collettivo – invece che incaponirsi in conflitti irrisolvibili. "Non c’è quindi da stupirsi – sostiene Turnbull – che il bopi (lo spiazzo dell’accampamento) sia sempre così pieno di schiamazzi e di risate». «Beffe, risa, scherzi sono elementi vitali dell’esistenza dei BaMbuti", aggiunge. 

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Rumore e silenzio

Disordine e ordine. Adesso facciamo un minuscolo salto verso la teoria. Tra i BaMbuti non vi è mai stato nessuno che abbia scritto o pensato un trattato di filosofia politica, qualcosa di simile a Per la pace perpetua di Immanuel Kant (1795). E tuttavia, fin da piccoli, i BaMbuti imparano una distinzione concettuale molto importante: quella che intercorre tra ekimi e akami. Ekimi è quiete, calma, ordine, silenzio; akami è invece rumore, disordine, disturbo. Quegli schiamazzi di cui abbastanza spesso si riempie il bopi sono senza dubbio akami (noi diremmo – con parola assai poco elegante – “casino”). Ebbene, i BaMbuti riconoscono l’incidenza della dimensione akami nella vita di tutti i giorni, fino al punto di affermare che la lingua con cui si parla normalmente è appunto akami. Per capire la sottile e fondamentale distinzione tra i due concetti (e i due comportamenti) occorre segnalare che i canti con cui i BaMbuti si rivolgono alla foresta non sono akami: sono ekimi. Alla foresta ci si rivolge con il massimo dell’affetto e della tenerezza, quale soltanto il canto può trasmettere. 

Se per i BaNande il coltellaccio che essi portavano sempre con sé è padre e madre, per l’altra popolazione i genitori sono
la natura

Akami è rumore, e in quanto tale contiene in sé il germe della violenza. Nella vita di tutti i giorni c’è tanto akami. Persino gli espedienti che i BaMbuti adottano per evitare che conflittualità interne esplodano e lacerino il tessuto sociale risentono inevitabilmente di questa dimensione: la messa in ridicolo di una persona, così da neutralizzarne l’aggressività, è senza dubbio akami. Ma la lezione che potremmo ricavare dai BaMbuti è duplice. Se persino il linguaggio quotidiano è akami, ciò significa che il “rumore” è normale e pressoché inevitabile. L’akami è contenuto in germi di piccole dimensioni, di cui nemmeno ci accorgiamo: ma può via via aumentare, fino a esplodere. Se non vi sono espedienti che lo trattengano, il rumore può generare violenza, sterminio, stragi (come può succedere con la caccia in foresta). La seconda lezione è che per tenere sotto controllo akami c’è un’unica risorsa, vale a dire il suo opposto: ekimi. Per esempio, se c’è subbuglio (akami) nell’accampamento occorrerà affidarsi al rituale del molimo, che con il canto mette in rapporto gli uomini con la foresta. Allo stesso modo, due persone si sposano solo quando si rendono conto che c’è tra loro ekimi in misura sufficiente per affrontare una vita in comune. 

Senza armonia, la fine

Senza ekimi, si è aperta la strada dell’akami, come gli eccidi di cui – a partire dagli anni Novanta del secolo scorso – i BaMbuti sono stati vittime indifese

Per i BaMbuti i maschi inclinano decisamente di più verso akami (l’uccisione durante la caccia, le dispute nel campo), mentre ekimi è prerogativa prevalentemente femminile: per i suoi ruoli vitali e i suoi comportamenti la donna è infatti "donatrice di ekimi". Divenendo anziani, perdendo via via l’aggressività che contraddistingue il loro ruolo di cacciatori, scivolando lentamente verso la fine, gli uomini acquistano anch’essi ekimi. 

Ammettendo il carattere inevitabile dell’akami, quale si manifesta persino nel rituale notturno del molimo, i pigmei BaMbuti hanno dunque ben chiara in mente la necessità di tenere sotto controllo l’akami (la violenza, il rumore) mediante il principio fondamentale dell’ekimi. Questo principio si esprime soprattutto e prima di tutto nel rapporto di convivenza e di amore con ndura, la foresta, la sfera che, come una madre, avvolge e protegge i suoi figli. I BaMbuti hanno pure ben chiara in mente la convinzione che soltanto l’ekimi con la foresta rende possibile la convivenza tra gli esseri umani. In assenza di ciò, la strada è aperta alle manifestazioni più crudeli e insensate dell’akami, come gli eccidi di cui – a partire dagli anni Novanta del secolo scorso – i BaMbuti sono stati vittime indifese da parte delle soldataglie di ogni genere e origine, che hanno violato senza ritegno e controllo alcuno la foresta equatoriale.

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